Socialisti e Verdi. Capire i perché di una crisi
Lo dice e lo scrive papa Francesco che bisogna uscire dal paradigma tecnocratico. Perché non riescono a dirlo anche sinistre ed ecologisti, opponendosi senza esitazioni alle logiche del capitalismo?
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Lo dice e lo scrive papa Francesco che bisogna uscire dal paradigma tecnocratico. Perché non riescono a dirlo anche sinistre ed ecologisti, opponendosi senza esitazioni alle logiche del capitalismo?
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Lo dice e lo scrive papa Francesco che bisogna uscire dal paradigma tecnocratico. Perché non riescono a dirlo anche sinistre ed ecologisti, opponendosi senza esitazioni alle logiche del capitalismo?
Il fallimento anche della recente COP 28 non sta forse a dimostrare che il capitalismo fossile e produttivistico / consumistico sta facendo di tutto – e già si sta preparando per far fallire anche la prossima COP – per rinviare quanto più è possibile la messa in discussione di sé come modello irrazionale? E questo ultimo capitalismo fossile e insieme digitale, sempre uguale ma apparentemente sempre diverso, non sta forse favorendo in tutto il mondo la ri-nascita di forze politiche sovraniste / populiste / postfasciste / antipolitiche e antidemocratiche – ma comunque neoliberali – e quindi negazioniste del cambiamento climatico, appunto per poter continuare l’accrescimento ulteriore di sé come capitalismo di sfruttamento dell’uomo e della Terra (e del profitto privato) e cioè, come si diceva un tempo, è capitalismo di rapina?
Rapina di risorse naturali (non più solo petrolio, ma litio, terre rare, eccetera); rapina di dati personali (la nostra profilazione) per la valorizzazione capitalistica non solo, come un tempo, del nostro lavoro e del nostro consumo, ma anche della nostra vita, ormai non più nostra ma merce anch’essa; rapina di senso di responsabilità verso il futuro (il negazionismo, appunto, o la resilienza che dovremmo indossare come nuovo habitus del nostro adattamento al tecno-capitale); rapina nello sfruttamento tayloristico-digitale del lavoro; rapina nelle disuguaglianze che crea, anche in Svizzera; rapina di conoscenza, sempre più trasferita al machine learning / algoritmi / IA.
Tutto questo non dovrebbe essere intollerabile? La lotta contro questo modello tecnico ed economico irrazionale ed ecocida per sua essenza non dovrebbe appunto accomunare socialisti e verdi – se i socialisti fossero davvero socialisti e ricordassero chi era Karl Marx (che molti errori ha commesso, ma molti di più sono quelli di chi ha pensato di agire in suo nome) o leggessero la Scuola di Francoforte e riaprissero le pagine ancora attualissime di L’uomo a una dimensione di Marcuse o di Eclisse della ragione di Horkheimer o Minima moralia di Adorno; e se i verdi fossero davvero verdi e leggessero ad esempio l’ambientalista italiano Giorgio Nebbia, ma anch’essi leggessero Marcuse e Horkheimer e Adorno e il Club di Roma? Perché non riescono a costruire una lettura critica dei processi tecnici / tecnologici e capitalistici in corso e sembrano invece rassegnati al capitalismo e alla tecnologia come dato di fatto ormai immodificabile?
Perché da troppo tempo non hanno più l’abitudine (marxiana, ma anche illuministica e soprattutto umanistica) “a ragionare in grande, cioè per grandi problemi, per grandi prospettive, soprattutto” – come ricordava, in altro tempo e in altro contesto (1987) l’economista e politico italiano Claudio Napoleoni? Proprio la crisi climatica – e quella sociale e quella democratica strettamente connesse – non dovrebbero imporre a socialisti e verdi di ragionare in grande, per grandi problemi e soprattutto per grandi prospettive, invece di lasciar crescere ancora le destre (anche svizzere) e il loro sogno / incubo diventato immaginario collettivo di troppi e fatto di piccolo è bello, nascondiamoci ai problemi globali e rinserriamoci piuttosto nel ridotto nazionale delle banche, dell’egoismo e del qui e ora?
In realtà esiste un problema a monte, che proviamo a riprendere grazie a due libri recenti. Per i socialismi/marxismi, il problema è quello di avere creduto (e per molti, di crederlo ancora) – leggendo soprattutto il primo Marx – che lo sviluppo incessante delle forze produttive capitalistiche e borghesi fosse la fonte unica di progresso e quindi la via necessaria per arrivare alla società comunista (Marx nel Capitale: “il modo capitalistico di produzione si presenta come necessità storica, affinché il processo lavorativo si trasformi in un processo sociale”). Dimenticando che Marx – che non era un dogmatico e per sua ammissione non era un marxista (e rimandiamo all’ottimo saggio di Marcello Musto, sociologo alla York University di Toronto e grande studioso di Marx: L’ultimo Marx – Donzelli Editore) – aveva poi aggiornato e modificato questa lettura unilineare, oltre che (per noi) surreale della storia, difendendo le specificità delle situazioni storiche, sempre comunque confidando nella centralità dell’azione umana per modificare la realtà e produrre cambiamento.
Perché Marx, come ricorda Musto, aveva come obiettivo quello di “organizzare la lotta per porre fine al modo di produzione borghese e per la completa emancipazione di tutti dal dominio del capitale”. I marxismi novecenteschi hanno invece continuato a riproporre questo dover sviluppare le forze produttive del capitalismo – di fatto lavorando per il tecno-capitale, quindi impedendo ogni autentica emancipazione – in nome di quella religione delle forze produttive criticatissima già nel 1934 dalla filosofa francese Simone Weil e che appunto accomuna(va) capitalisti e marxisti. Mentre oggi queste forze produttive basate sul sempre di più dovrebbero essere almeno contenute, regolamentate e rese sostenibili e soprattutto democratizzate nei loro processi, uscendo laicamente e illuministicamente da questa religione.
Sviluppo delle forze produttive che oggi si dimostra essere infatti e appunto – ma lo dimostrava già ai tempi dell’ultimo Marx, che forse lo aveva capito – la causa prima se non unica della crisi climatica o, come la definiva Marx, della rottura del ricambio organico tra società e natura. Possiamo allora dire che Marx si era fatto eco-socialista?
Di Kohei Saito – filosofo dell’economia all’Università di Tokyo – abbiamo già scritto l’anno scorso. Ora lo riprendiamo, essendo uscita la traduzione in italiano del suo L’eco-socialismo di Karl Marx (Castelvecchi). Saito si rifà ai quaderni di appunti che Marx aveva dedicato alle scienze naturali e che dovevano essergli utili anche per completare il terzo libro del Capitale (che non poté mai concludere, come il secondo), quaderni pubblicati recentemente per la cura anche dello stesso Saito. Che scrive: “non è possibile comprendere tutta la portata della critica dell’economia politica di Marx se si ignora la sua dimensione ecologica”. Tema anch’esso che aveva portato Marx ad allontanarsi “da ogni forma di ingenuo prometeismo, arrivando a considerare le crisi ecologiche come la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico”. In realtà, Saito sembra forse troppo ottimista nel definire Marx un eco-socialista. Sicuramente però i quaderni pubblicati indicano che Marx stava ponendo grande attenzione all’ecologia. Aspettiamo i quaderni successivi per confermare la tesi di Saito, ma le premesse sembrano esserci.
Certo è che noi oggi – con un Marx ecologista o meno – dobbiamo usare, per ciò che ci è ancora utile (ed è molto, marxiani o non marxiani che si sia), anche la critica di Marx al capitalismo. Ma siamo davvero capaci – Sanders – di sfidare il capitalismo?
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