Di Anna Lombardi, La Repubblica
Da Nubeluz, il cocktail bar in cima al Ritz-Carlton Hotel sulla 28esima strada da cui si vedono dall’alto tre quarti della Grande Mela, i suoi drink da 30 dollari a calice ti arrivano in alambicchi fumanti, misteriosi come le formule di un’alchimista. Da Zaytinya nel cuore politico di Washington, sulla nona strada, i suoi menù mediterranei che alle influenze spagnole combinano quelle greche, italiane, libanesi hanno infuso nuova energia nei sapori stantii della capitale.
Con trenta ristoranti sparsi in tutti gli Stati Uniti, un programma tv e perfino un “truck”, una di quelle cucine su ruote che si trovano agli angoli delle strade, davvero lo chef stellato José Andrés ha cambiato gli appetiti di quell’America dove pure era sbarcato 20 anni prima con appena 50 dollari in tasca: dando nuovo carattere perfino al semplice mashed potatoes, il purè di patate. Che nella sua versione è condito con aglio e olio d’oliva. La sua cucina è una tale arte che per lui hanno perfino creato una cattedra alla George Washington University, dove insegna “Global food”.
Ma Andrés è molto di più: memore delle sue umili origini – nato nel 1969 a Mieres, un villaggio minerario delle Asturie – è anche il fondatore di una delle più influenti ong che si occupano di fornire pasti in situazioni di emergenze alimentari. Quella World Central Kitchen ieri drammaticamente finita al centro dell’attenzione globale dopo che un attacco aereo israeliano ha ucciso sette suoi volontari a Gaza. E infatti da questa parte di mondo la sua fama di chef è pari a quella legata all’impegno sui fronti caldi e ai sistemi alimentari da lui ideati, in grado di resistere ai disastri naturali: i suoi pasti a portata anche dei più bisognosi. Giacché più volte ha sfamato i migranti spediti nelle grandi città dal confine aspettandoli coi suoi volontari ai capolinea. Oppure portando zuppe calde ai tanti che pur di votare affrontano lunghe file spesso al freddo.
Che storia, d’altronde, quella di Andrés, che la rivista Time ha più volte inserito nella lista dei 100 personaggi più influenti del mondo e il cui motto è “Tavoli più lunghi, non muri più alti”. Un esordio come tanti il suo, in una scuola alberghiera a cui si iscrive a 15 anni. A 18 è costretto a fare il militare: lo arruolano in marina, lo sbattono in cucina. È la sua felicità. Tanto bravo che un ammiraglio a un certo punto lo fa assegnare alla sua residenza privata. Lui si ribella: vuol girare il mondo. Per punizione lo mandano su una nave di lungo corso: è così che per la prima volta sfiora la Statua della Libertà a New York, stabilendo per sempre la Grande Mela come suo obiettivo. In Spagna ha intanto l’opportunità di perfezionare le sue tecniche lavorando al fianco di un ristoratore che iniziava a farsi strada: Ferran Adrià, con cui collabora dal 1988 al 1990. Poi s’interrompe per un banale litigio, dovuto al ritardo a un appuntamento (ma ora sono di nuovo migliori amici).
È il 1994 quando finalmente approda a Manhattan con 50 dollari in tasca. Trova lavoro in un ristorante spagnolo, Eldorado Petit, sulla 55esima strada. Intanto tra un turno e l’altro dà una mano al vicino Quilted Giraffe, vero tempio della nouvelle cuisine, dove lavora gratuitamente, ma apprende tantissimo, non solo ricette ma anche tecniche di gestione. Ha l’occasione di aiutare ad aprire un ristorante chiamato Jaleo a Washington. Si fa notare e, due anni dopo, gli viene proposto di rilevare il Café Atlántico, sempre a Dc, che diventerà il primo tassello del suo impero. Ha 25 anni. Nel 2002 apre Zaytinya, l’anno successivo Minibar, un ristorante nel ristorante, spazio da sei coperti all’interno del Cafe Atlantico super esclusivo: dove lo chef prepara le sue creazioni più particolari, sempre sold out con mesi d’anticipo. Cominciano ad arrivare i premi come miglior chef e altri ristoranti, incluso il James Beard Award nel 2011, sorta di Oscar della cucina e le stelle Michelin.
L’anno successivo, con Robert Wilder fonda una società, ThinkFoodGroup, e apre ristoranti a Miami, Los Angeles, Las Vegas e Porto Rico. Ed è sempre con il socio Wilder che inizia, nel 2010, il suo impegno in ambito sociale. Il primo impegno in tal senso è determinato dal terremoto di Haiti, a gennaio di quell’anno. Andrés va personalmente a Port-au-Prince e quel viaggio gli cambia la vita. Nasce World Central Kitchen, che lascia ad Haiti una forte presenza: crea infatti un orfanotrofio, una scuola di cucina per chef locali, la fornitura di fornelli a energia solare. Da allora l’organizzazione è cresciuta. Insieme all’impegno lì dove ce n’è più bisogno: soprattutto nell’America Latina devastata da disastri naturali. Ma anche in Ucraina dopo l’invasione russa, allestendo cucine al confine con la Polonia per dare pasti ai profughi in fuga. Un’operazione portata avanti col contributo anche del miliardario Jeff Bezos: che all’organizzazione ha donato 100 milioni di dollari.
Nell’immagine: José Andrés