Assange: la democrazia è nuda

Assange: la democrazia è nuda

La sua vicenda rivela le ipocrisie della democrazia, inerme nelle mani dei colossi economici globali


Lelio Demichelis
Lelio Demichelis
Assange: la democrazia è nuda

Torniamo alla notizia del via libera dell’Alta Corte di Londra alla estradizione negli Usa del giornalista indipendente Julian Assange – ne ha scritto Aldo Sofia, su queste ‘pagine’ lo scorso 12 dicembre. Lo facciamo perché il tema della libertà d’informazione e del pensiero critico – parte del più ampio concetto di libertà e di diritti (naturali) dell’uomo – non va lasciato cadere.

Sì, perché anche il caso Assange dimostra che le nostre democrazie sono sempre più ipocrite (la definizione è di Tommaso Di Francesco, condirettore de il manifesto – e che facciamo nostra), sono cioè sempre meno democrazie. Sì, ipocrite se oltre ad Assange (che incarna la lotta della verità contro il potere che non vuole essere visto né essere giudicato) pensiamo al tema dei migranti e ai comportamenti degli Usa e dell’Europa contro quel diritto di movimento riconosciuto all’individuo, a prescindere dalla cittadinanza, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 (art. 13: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese); ipocrite se pensiamo al fallimento della Cop 26 di Glasgow per il potere occulto della lobby delle energie fossili; se pensiamo alle disuguaglianze sociali che aumentano (un tema espulso/rimosso dalle agende politiche e dai mass media neoliberali dell’Occidente, dimenticando che se non si garantiscono i diritti sociali, muoiono anche quelli politici e civili); ipocrite se pensiamo alla nuova corsa al riarmo nel mondo (la spesa militare mondiale è raddoppiata dal 2000 a oggi e si avvicina a 2 trilioni di dollari Usa all’anno, in aumento in tutte le regioni del mondo, nel quasi totale silenzio dei media mainstream).

E allora, per mettere in rilievo questa ipocrisia neoliberale (Biden che vuole la testa di Assange negando la libertà di stampa e di informazione e negli stessi giorni promuove un summit per la democrazia invitando a partecipare democratici come Bolsonaro, Erdogan, il Pakistan, la Polonia sotto infrazione dalla Corte Ue per violazione dello stato di diritto, cioè compie un’operazione che anche il settimanale Time ha definito una “vetta di ipocrisia”), proviamo allora a sottolineare due o tre cose che riguardano la democrazia e il nostro rapporto di cittadini con il potere, non solo politico.

Ha scritto la politologa italiana Nadia Urbinati (è una liberale critica) che insegna alla Columbia University: “Nella democrazia, l’agire politico non solo è pubblico, ma deve essere reso pubblico, messo sotto gli occhi del pubblico; e lo è in due sensi: perché volto ad occuparsi di problemi che direttamente o indirettamente riguardano e condizionano tutti; e perché deve essere esposto sempre al giudizio dei cittadini, i quali, in quanto ‘corpo sovrano’, hanno due poteri: quello di autorizzare con il voto e quello di giudicare e controllare perpetuamente, prima o dopo aver votato, coloro che hanno autorizzato” a governarli (in Liberi e uguali, 2011). In democrazia inoltre, il diritto al dissenso è fondamentale: un dissenso critico (ancora Urbinati), perché avere “una grammatica comune non implica non avere ragioni per dissentire su come e dove applicare le regole, ovvero su che cosa dire o credere”. Occorre cioè avere “un distacco salutare, che Socrate aveva insegnato a praticare ai suoi concittadini democratici, invitandoli a non accettare nulla senza il vaglio della loro ragione critica”. Ma questo è possibile solo se esiste una cittadinanza attiva sempre, e critica sempre – per essere appunto capace, come Socrate, di fare domande, porre questioni, attivare un pensiero critico e riflessivo – perché democrazia significa la scelta dei fini da parte del demos e poi la predisposizione dei mezzi per raggiungere tali fini, ma per farlo occorre partecipazione, immaginazione, appunto libertà di espressione e di stampa senza le quali muore il pensiero critico. Che infatti oggi sta morendo.

Certo, storicamente il potere non vuole essere trasparente, mentre vuole noi assolutamente trasparenti. Ma questa sua malattia cronica ha subito una accelerazione (e una sua accettazione totalmente passiva da parte nostra) con le tecnologie di rete e il Big Tech: un potere assolutamente oscuro e opaco, ma che ci vuole massimamente trasparenti (profilabili, cioè spiabili per il Big Data in ogni istante della nostra vita capace di produrre profitto privato), per questo ci ha fatto rinunciare volontariamente al concetto di privacy, convincendoci che fosse una cosa del passato.

È un potere – questo del Big Tech – d’impresa e tecnologico sempre più autocratico (l’autocrazia intesa come quel sistema dove il sovrano o autocrate ricava la propria autorità solo da sé stesso o dal diritto divino, oggi dal diritto del mercato e dell’impresa), sempre meno controllato e controllabile, cioè sempre meno democratico e che tuttavia è abilissimo a farci credere che la rete e l’innovazione siano democratiche e liberanti in sé. E allora, contro questa autocrazia d’impresa delle multinazionali del Big Tech – il cui impatto si è fatto oggi globale e capace di modificare a sua totale discrezione la vita di miliardi di persone (da Amazon a Google ai social) a prescindere da ogni controllo democratico del suo potere – occorre riprendere Montesquieu e la sua teoria del bilanciamento dei poteri di uno stato (oggi da applicare a imprese più potenti di uno stato) dove, partendo dalla considerazione che il “potere assoluto corrompe assolutamente” Montesquieu analizzava i tre poteri che vi sono in ogni stato: il potere legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. E quindi, condizione oggettiva per l’esercizio della libertà del cittadino, quindi della democrazia è che questi tre poteri restino nettamente separati e soprattutto controllati e bilanciati.

Se questo è vero (ed è vero), oggi abbiamo il dovere di affrontare il nuovo potere del Big Tech e dell’impresa multinazionale. Un potere “assoluto e che corrompe assolutamente” sia la democrazia, sia la libertà, sia i diritti umani molto più di quanto sia accaduto in passato, proprio per la pervasività delle nuove tecnologie nella vita dell’uomo. Potere che è opaco, che vuole restare opaco, che non vuole essere giudicato. E invece anche il potere dell’impresa – un potere sempre più politico, nel senso di governo della polis oggi globale – deve essere reso pubblico ed esposto al giudizio dei cittadini. Perché il demos non lo ha consapevolmente autorizzato a governarlo, bensì questo potere si è preso il diritto (autocraticamente) di farlo a prescindere da un voto e dal controllo sul suo operato, imponendosi come un dato di fatto. Ma perché questo possa accadere – cioè che il superpotere del Big Tech venga controllato e bilanciato democraticamente – questo potere deve essere prima riconosciuto come tale da tutti e da ciascuno, per non finire noi governati (ma lo siamo già) da imprese private che ovviamente non perseguono il bene comune/pubblico-interesse generale, ma solo il profitto privato.

Per farlo ci servirebbe un pensiero critico della e una informazione indipendente sulla innovazione tecnologica e sul potere delle multinazionali, che invece non abbiamo (più). Semmai questo potere è capace sempre più di autocelebrarsi oltre ogni pudore (e questo nonostante voglia essere sempre più opaco e nascosto, ma diventa appunto sempre più nascosto, e sempre più potente, quanto più lo celebriamo e lo aduliamo), non solo con l’Economist che incorona Mario Draghi in copertina, ma anche con programmi – osceni dal punto di vista informativo e del pensiero critico – come quello dedicato a Sergio Marchionne, andato in onda su Rai Tre la sera del 17 dicembre scorso.

E con questo torniamo al caso Assange, da cui siamo partiti.

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