Ticino, terra di pseudonimi
La sottile arte di celare la propria identità quando si vuol pungere e criticare
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La sottile arte di celare la propria identità quando si vuol pungere e criticare
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La sottile arte di celare la propria identità quando si vuol pungere e criticare
Forse si potrebbe cominciare da “Milesbo”, che a cavallo fra 800 e 900 è stata penna incandescente del proto-giornalismo di casa nostra, il nome d’arte che si era dato l’avvocato e politico radicale Emilio Bossi per scatenare, da buon massone, il suo irrefrenabile anticlericalismo. E per restare in quegli anni, proprio agli albori del Novecento, forse anche l’”Ulisse” che verga le sue “Lettere iperboliche” e che al Cantone affibbia la celebre definizione di “Repubblica dell’iperbole” potrebbe venirci utile per constatare che anche Francesco Chiesa, nel criticare duramente il paese degli avvocati e delle famiglie potenti, aveva bisogno perlomeno di un alter ego.
E così, saltabeccando nei decenni, si potrebbero ricordare, solo come esempio, il “Telex” del “Giornale del Popolo”, o le cattolicissime lettere sdegnate inviate ai giornali da una sedicente “mamma di Vaglio”; o ancora un “Emo Martini” di Gazzetta Ticinese dietro cui stava un noto giornalista e politico socialista, fino agli anni più recenti, quelli del “Mattino” e del proliferare, fra un terrario e l’altro, di una pletora di firme “farlocche”, dall’”Allodola” allo “zio Bill”, da “Cip e Ciop” al “Cane Peo” fino al “Signor Piantoni” (che Cito Steiger lo perdoni) al punto che quando vi trovi, oggi, la firma Lorenzo Quadri ti viene il dubbio che sia inventato anche lui. Poi, no, quello esiste davvero.
Nell’era dei social è tutto un fiorire di account e profili dubbi o chiaramente falsi e non solo per invitarti ad aderire a qualche chat gestita curiosamente da avvenenti indonesiane, ma, ancora e di nuovo, per lasciar libero sfogo alla critica feroce, senza remore né censura, quella che colpisce laddove, in generale, non si osa farlo: e come 100 anni fa, siamo nei dintorni di avvocati, politici, famiglie che contano (e si contano).
Proprio recentemente Lorenzo Erroi, per la “Regione”, ha intervistato (non si sa bene in che forma) il “perfido” “Francesco Sottobosco” che nel proprio profilo si presenta come “Gran maestro presso Loggia Massonica Foca e Liberazione”, o ancora “Chief Technology Officier (CTO) presso Corippo Analytica” e dispensa quasi quotidianamente corrosivi post, spesso sarcastici e divertenti, certamente satirici, su fatti e personaggi dell’attualità nostrana.
Si tratta, anche in questo caso, ovviamente, di uno pseudonimo, chiaramente dichiarato come tale dall’immagine dell’originale Frank Underwood, il cinico e spietato presidente americano protagonista della celebre serie “House of Cards” interpretato da Kevin Spacey.
Non di rado, obiettivo privilegiato degli strali di “Sottobosco” è il servizio pubblico radiotelevisivo, in particolare la sua dirigenza. Un obiettivo che condivide con un altro profilo evidentemente fasullo, quello di “Franco Liri”, ultimamente però un po’ assente dalla scena, ma che per mesi ha alimentato, ad esempio, a modo suo, fra critica ed ironia, le sorti della cultura in RSI.
Come molti osservatori attenti alle questioni radiotelevisive, anche “Sottobosco” non ha potuto fare a meno di leggere e condividere (scatenando i commenti dei suoi seguaci più fedeli in Facebook) la pagina della “Regione” dedicata alle sorti della Rete Uno firmata da una “new entry” nel campo dei nom de plume: Justine Rêve, esplicitamente indicato come pseudonimo in chiusura di articolo.
È un articolo ironico e polemico verso gli annunciati aggiustamenti e aggiornamenti della prima rete radiofonica del servizio pubblico, che gioca ed insiste fin quasi all’apnea nella metafora del subacqueo che deve andare fino a toccare il fondo per prendere la spinta che gli permetterà di riemergere. Un’immagine interessante, perché no, ma protratta e reiterata per dire un po’ di tutto, dentro un’intera pagina del quotidiano, su quello che ancora non va nella programmazione di Rete Uno, ma anche per lamentarne una conduzione tutta al maschile, alle dipendenze di una dirigenza eteropatriarcale ma con figli, in cui “tre su quattro portano in dote cognomi che contano (branche dell’eteropatriarcato in sauce tessinoise antropologicamente interessante ma non nuova: il figliol prodigo in azienda).”
Ah, eccoci in pieno tema delle famiglie che contano, così caro alla produzione ticinese di autori con pseudonimi. Se ne potrebbe fare un’antologia, che poi, gira e rigira, si scoprirebbe che i nomi in questione sono poi sempre quelli, che si parli di politici, di avvocati o di personaggi influenti; che si parli di società, cultura o di giornalismo. Sempre quelli, perché la nostra “Repubblica dell’Iperbole” quelli ha e quelli si tiene, e vota, e nomina, e plaude pubblicamente, tranne poi dar sfogo a tutto il civico sdegno nell’anonimato degli pseudonimi, o nell’arena spersonalizzata dei commenti social.
Già, perché “il paese è piccolo e la gente mormora” diceva Tina Pica in un celebre film di De Sica. È un paese in cui tutti si conoscono, in cui spesso, al terzo nome che ti si fa, si parla di un amico o di un parente, ma “alla lontana” naturalmente, e neanche molto gradito. Un paese campanilista e litigiosissimo che anche proprio per questo lascia prosperare e dominare la scena sempre agli stessi, sempre quelli, che sulle dispute, i diverbi, gli scontri più feroci passa sopra con disinvoltura e savoir faire.
Un paese, insomma, in cui un tema importante (fra i molti) come quello che riguarda un’idea di rinnovamento del servizio pubblico radiotelevisivo, finisce per essere affrontato da provincia, fra un bar e un corridoio, tutto in termini autoreferenziali e personalistici, aspettando che qualcuno la spari grossa nell’anonimato ormai sdoganato anche dalla stampa ufficiale, che ospita la sognante Justine senza porsi minimamente il problema se non sia anche questa una forma di ulteriore deriva.
Così tutto finisce in beghe da condominio, dove ormai, al portone d’ingresso vicino ai campanelli, si moltiplicano le targhette senza nome, quelle che hanno solo un numero, a cui non suoni perché non sai chi c’è. Ma su, vedi un’ombra, dietro la finestra, e hai la sensazione che prima o poi si farà sentire, con qualche lettera anonima che ti ritrovi nella bucalettere, insieme e dentro al tuo quotidiano.
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