Harry Braverman, chi era costui?

Harry Braverman, chi era costui?

Un autore che andrebbe letto o riletto per non farsi affascinare e intrappolare da una falsa visione della tecnica e del capitalismo


Lelio Demichelis
Lelio Demichelis
Harry Braverman, chi era costui?

Indifferenza, abitudine, egoismo, edonismo e narcisismo, e poi violenza/guerra, amoralità/immoralità, autocrazie/neofascismi e tante fake-news. Sembrano questi i caratteri ormai stabilizzati – e mescolati tra loro in un micidiale intruglio sociologico e politico – delle nostre società.

Mai prima d’ora si era speso così tanto per le armi – 2.443 miliardi di dollari, +6,8% nel 2023 sul 2022 (Rapporto Sipri) – eppure nessuno protesta e dice/grida: mi oppongo! La crisi climatica peggiora sempre più rapidamente – e l’Europa ne soffrirà più di altre zone del globo – ma la gente vota sempre più a destra e cioè per i negazionisti del riscaldamento climatico, equiparabili ai No-Vax del tempo della pandemia, solo che oggi i No-Climate change sono al governo del mondo.

La stessa pandemia era stata intesa da molti – e rimandiamo a un bellissimo articolo di allora della scrittrice indiana Arundhati Roy – come un momento utile e opportuno di riflessione collettiva e di avvio della nostra uscita radicale da un modello produttivo e consumativo ecocida e anti-sociale oltre che tendenzialmente anti-democratico; e invece no, e tutti vogliamo compulsivamente e freneticamente tornare a prima di allora, anzi a più di prima di allora (più produzione, più consumi, più divertimento, più irresponsabilità, più egoismo, più narcisismo – e della biosfera e dei nostri figli e nipoti chi se ne importa…).

A questo aggiungiamo l’equiparazione tra critica al genocidio israeliano a Gaza e l’antisemitismo, con America e Germania ormai alla totale paranoia, ma anche con Francia e Italia e pure Svizzera in prima fila in questa maccartistica (maccartismo era l’atteggiamento politico diffuso negli anni ’50 in America, caratterizzato da un clima di sospetto e di repressione verso ogni pensare diverso e quindi ritenuto sovversivo), una appunto maccartistica negazione/negazionismo dell’evidenza e quindi dell’intelligenza (e noi tutti occidentali facendoci oggettivamente complici del genocidio, vendendo armi a Israele).

Ma su tutto – oltre a indifferenza, abitudine, egoismo, edonismo e narcisismo e violenza/guerra e amoralità e fake news… – è la dimenticanza ad essere la nuova pandemia di questi tempi, complici consumismo e nuove tecnologie che ci fanno vivere in un eterno presente, dimenticando appunto (questo è la dimenticanza… indotta in noi dal sistema per la sua riproducibilità infinita) il passato (e i suoi fascismi, populismi, maccartismi, autoritarismi, guerre…). Ma dimenticare il passato significa non capire il presente e non poter immaginare un futuro diverso, dopo avere gridato di nuovo, trovando insopportabile e stupido il mondo di oggi: mi oppongo!

Un problema – la pandemia di dimenticanza e il conseguente e collettivo lock-down del cervello – che riguarda anche o soprattutto l’economia e la tecnologia. Perché oggi crediamo di essere nella quarta rivoluzione industriale e in un cambio di paradigma grazie al digitale, quando in realtà è sempre la riproposizione della vecchia rivoluzione industriale e della vecchia divisione capitalistica e macchinica del lavoro: la differenza col passato essendo solo nella digitalizzazione del vecchio taylorismo, mentre le piattaforme digitali sono solo la forma apparentemente nuova della vecchia fabbrica.

Per capire che ciò che sembra nuovo – che viene spacciato come nuovo e spacciato proprio nel senso di una droga che deve determinare la nostra dipendenza dal capitalismo e dalla tecnologia – non è in realtà davvero nuovo, andiamo a rileggere un saggio importante degli anni ‘70 ma oggi dimenticato (appunto…), di Harry Braverman: Lavoro e capitale monopolistico – pubblicato da Einaudi, oggi introvabile se non nelle Biblioteche o vintage in rete. Sottotitolo: La degradazione del lavoro nel XX secolo. Uno studio molto approfondito sullo sviluppo dei modi di produzione capitalistici lungo l’intero ‘900 – e noi diciamo: anche di oggi.

Chi era Braverman (1920-1976)? Qualche vecchio socialista o sindacalista forse ricorderà il suo libro. Lavorò a lungo come ‘operaio di mestiere’ in cantieri navali e poi in industrie metalmeccaniche. Militante del Socialist Workers’ Party fino al 1953, divenne poi Direttore del mensile politico The American Socialist. Dal 1967 fino alla sua morte fu quindi direttore editoriale della Monthly Review Press. E cosa intendeva per capitale monopolistico (riprendendo un concetto di Baran e Sweezy)? “Il capitalismo monopolistico ha avuto inizio negli ultimi due o tre decenni del XIX secolo” con la concentrazione e la centralizzazione del capitale (cioè, grandi imprese e cartelli). Esso “contiene in sé l’aumento delle organizzazioni monopolistiche all’interno di ogni paese, l’internazionalizzazione del capitale, la divisione internazionale del lavoro, l’imperialismo nonché i mutamenti nella struttura del potere dello Stato e l’utilizzo crescente e sistematico della scienza per una più rapida ed efficiente trasformazione della forza-lavoro in capitale”. E se allora “quasi tutta la popolazione è stata trasformata in dipendenti del capitale”, oggi lo siamo tutti (senza il quasi) e ancora di più, per effetto dei processi di digitalizzazione e di messa al lavoro – per la sua valorizzazione capitalistica – della vita intera di ogni individuo.

In questo processo “il capitale, che ‘entra con frenesia’ in ogni nuova area possibile di investimento, ha riorganizzato completamente la società”. Il capitalismo ha cioè assunto “il controllo della totalità dei bisogni individuali, familiari e sociali […] trasformando l’intera società in mercato”, dove tutto assume la forma della merce e dove il sistema inventa sempre “nuovi prodotti e nuovi servizi, alcuni dei quali finiscono per diventare indispensabili per il fatto che le moderne condizioni di vita distruggono ogni alternativa. Chi vive nella società capitalistica è intrappolato in una rete fatta di beni e servizi mercificati, da cui non c’è quasi possibilità di fuga”. E oggi, ancora di più. Noi tutti accettando “come necessario tutto ciò che è reale, come inevitabile tutto ciò che esiste e quindi come eterno il modo di produzione attuale. Questa concezione si presenta come un vero e proprio determinismo tecnologico” o peggio come “un dispotismo della macchina” – e oggi degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale, che dobbiamo accettare a prescindere da ogni valutazione democratica sulla loro utilità e sostenibilità.

Ancora Braverman: “Negli anni ‘60 e ’70 vi era una diffusa insoddisfazione per il lavoro”, portando molti ad abbandonare lavori non di qualità (oggi si parla di ‘grandi dimissioni’, ma non solo). Tra i rimedi proposti allora dal management vi erano “l’ampliamento, l’arricchimento delle mansioni, gruppi e squadre di lavoro, la consultazione o la partecipazione dei lavoratori, i premi di gruppo e la partecipazione agli utili d’impresa, la promessa di abbandono dei metodi e delle tecniche basate sulla catena di montaggio, l’abolizione degli orologi di controllo e la tecnica del I Am, abbreviazione di I Am Manager of My Job”. Ma anche oggi il management propaganda le stesse cose, però lo chiama nuovo: lavoro come collaborazione, self management, empowerment ed enrichment delle mansioni, essere imprenditori di sé stessi (l’equivalente oggi di I Am).

Ma lo scopo è sempre il medesimo, “tagliare i costi, migliorare l’efficienza e aumentare la produttività”, cioè il profitto d’impresa. Perché sempre “è interesse particolare e perenne del capitalismo quello di abbassare il prezzo della merce/forza-lavoro”. Ieri come oggi. E il taylorismo – oggi incorporato negli algoritmi/management algoritmico – è la scienza “della direzione del lavoro altrui”, oggi appunto tradotto in taylorismo digitale. Perché (Taylor) “il controllo del lavoro deve essere sempre della Direzione” e quindi “tutto il lavoro intellettuale deve essere tolto dall’officina”. Ovvero, ci deve essere sempre qualcuno che organizza, comanda e sorveglia il lavoro altrui e qualcuno che deve solo eseguire. Questo è il capitalismo.

Ancora Braverman, sempre mezzo secolo fa: “una conseguenza necessaria della separazione fra ideazione ed esecuzione [del lavoro] è data dal fatto che il processo lavorativo è ora diviso in tanti luoghi distinti e in tanti distinti gruppi di lavoratori. In un posto si svolgono i processi fisici di produzione; in un altro sono concentrati la progettazione, la programmazione, il calcolo e la registrazione. L’idea preliminare del processo prima che esso venga messo in moto; la visualizzazione delle attività di ciascun lavoratore prima che esse abbiamo effettivamente inizio; la definizione di ogni funzione, insieme al modo di eseguirla e al tempo che richiederà; il controllo e la verifica del processo in corso una volta iniziato; la valutazione dei risultati al compimento di ciascuna fase: tutti questi aspetti della produzione [e oggi anche del consumo e del data mining] sono stati trasferiti dallo stabilimento agli uffici direttivi”. Oggi parliamo di globalizzazione, esternalizzazione, delocalizzazione, filiere… ma è lo stesso processo descritto da Braverman. E tutti questi aspetti sono incorporati appunto negli uffici direttivi chiamati algoritmi e IA – del nuovo capitalismo digitale.

Ci fermiamo qui, ma in Braverman c’è molto altro. Non senza però rivolgere un caldo invito alle sinistre e al sindacato – a ciascuno di noi – a rileggere o a leggere Braverman, smettendola di farsi/farci affascinare/catturare ogni volta da una visione idilliaca o ineluttabile/deterministica della tecnica. E del capitalismo.

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