Auschwitz non finisce mai – Le trappole della memoria (3)
La parte finale della riflessione di Gabriele Nissim sul difficile compito di evitare in futuro tragedie simili a quelle del passato
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La parte finale della riflessione di Gabriele Nissim sul difficile compito di evitare in futuro tragedie simili a quelle del passato
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La parte finale della riflessione di Gabriele Nissim sul difficile compito di evitare in futuro tragedie simili a quelle del passato
Da dove nasce la trappola del discorso sull’unicità della Shoah e sulla impossibilità di comparazione con gli altri genocidi? Prima di tutto è necessario comprendere la sua specificità e singolarità. Yehuda Bauer, il grande studioso israeliano della Shoah, ci aiuta a definirlo nel suo ultimo testo, che Gariwo si accinge a pubblicare nel 2023.
La Shoah è un genocidio con caratteristiche universali perché il nazismo si propone di sterminare gli ebrei, non in un territorio particolare, come ad esempio è avvenuto per gli armeni nell’Impero Ottomano e i Tutsi in Ruanda, ma in ogni angolo del mondo. È un genocidio “di fantasia” perché non esiste nessuna motivazione economica e territoriale, ma nasce da una ideologia che vede gli ebrei corruttori dell’umanità in ogni angolo del mondo sia nella veste di capitalisti, sia di comunisti, sia di elementi antinazionali che corrompono dall’interno lo spirito di ogni nazione.
Emblematico è il discorso che Hitler pronuncia al Reichstag, il 30 gennaio alla vigilia della guerra, quando il Führer indica lo sterminio totale degli ebrei come una misura di prevenzione nei confronti di un ebraismo che mirerebbe a prendere possesso del mondo attraverso una guerra che unirebbe i finanzieri e i bolscevichi ebrei: “ Se l’internazionale dei finanzieri ebrei dentro e fuori dell’Europa dovesse riuscire a precipitare le nazioni in una nuova guerra mondiale il risultato non sarebbe la bolscevizzazione della terra e quindi la vittoria degli ebrei, ma l’annientamento della razza ebraica in Europa.”
Ed è una guerra dove l’obiettivo della vittoria militare della Germania risulta secondario, come osserva Raphael Lemkin, alla distruzione degli ebrei in tutti i territori occupati. Conta di più il cambiamento chirurgico di popolazione che i nazisti realizzano dall’Europa centro orientale all’Unione Sovietica, che la stessa razionalità della loro impresa militare.
Per questo motivo Heinrich Himmler nella primavera del 1944 indirizzò un ordine drastico ai comandi militari di Lodz, il ghetto che produceva indumenti e materiali per le SS. Un ebreo eliminato era più utile alla Germania che uno schiavo ebreo che lavorava per l’economia tedesca.
Era dunque razionale uccidere gli ebrei, anche se a noi può sembrare irrazionale un ordine che non serviva alla vittoria militare. Ecco perché i nazisti continuavano a deportare e a sterminare gli ebrei, anche quando la loro sconfitta era segnata dall’andamento della guerra.
Lo stesso meccanismo di distruzione degli ebrei nel campo, dalla violenza gratuita, alla disumanizzazione delle vittime, alla loro cooperazione indotta, al processo di annientamento basato sullo stesso principio di sopravvivenza (viveva sempre più a lungo qualcuno al posto dell’altro, come raccontava Primo Levi), non aveva nulla di inspiegabile come hanno ritenuto molti interpreti: era una macchina organizzata che portava al limite estremo il potere possibile di un uomo sull’altro uomo e il gusto sadico del carnefice di vedere l’altro morire.
Con questa impostazione Yehuda Bauer in questi anni ha cercato di costruire un metodo di lavoro soprattutto nel mondo ebraico per rendere riconoscibile nel mondo la singolarità della Shoah, come genocidio non precedente, e legare la sua memoria alla prevenzione dei genocidi nei confronti degli ebrei e dei non ebrei.
Tre sono i temi che ha indicato nel suo lavoro.
Vediamo cosa ha funzionato in questi anni e i buchi neri che hanno creato invece “le trappole” della memoria che devono essere affrontate dalle prossime generazioni.
La battaglia per la memoria è stata la grande sfida per rendere riconoscibile la singolarità della Shoah che in modi diversi veniva rimossa per coprire le differenti complicità. Se la Germania è stato il paese all’avanguardia nel riconoscimento della colpa, molti in Europa, come scrisse Itsvan Bibo in un saggio sulla questione ebraica in Ungheria, hanno preferito scaricare le colpe sulla Germania per non dovere affrontare le loro responsabilità. Poiché i tedeschi erano i colpevoli si trovava così il modo di evitare un esame di coscienza. Emblematico è stato il ritardo con cui la Francia ha riconosciuto le responsabilità del governo di Vichy nella deportazione degli ebrei francesi.
Mitterrand aveva sempre dichiarato in riferimento al rastrellamento del famoso Velo’ d’Hiver, il velodromo d’inverno di Parigi dove tra il 16 e il 18 luglio 1942 furono raccolti 13 mila ebrei francesi per la deportazione, che non avrebbe mai chiesto scusa a nome della Francia, che non riteneva responsabile. “Sono delle minoranze che hanno colto l’occasione della sconfitta per impadronirsi del potere. Sono loro che devono rispondere a questi crimini. Non la Repubblica, non la Francia.” Fu invece, con tanto ritardo nel luglio del 1995, Jacques Chirac, nel 53esimo anniversario della deportazione a riconoscere la responsabilità politica della Francia. “Quelle ore buie hanno insozzato per sempre la nostra storia e sono un’ingiuria per il nostro passato e le nostre tradizioni. Sì, la follia criminale dell’occupante tedesco fu assecondata dalla Francia, dallo Stato francese”.
Il secondo aspetto è stato il riconoscimento dello statuto della vittima del campo di concentramento Simone Veil ricorda per esempio come in Francia, quando ritornò a vivere dopo la sua prigionia ad Auschwitz, fece molta fatica ad essere creduta ed ascoltata. Invece sua sorella Denise che era finita in un campo, non come ebrea ma come partigiana, era sempre accolta con grandi onori dai comunisti e dai combattenti antifascisti, mentre lei, Simone, viveva in solitudine.
Per questo si batté sulla scena pubblica con grande successo perché fosse riconosciuta la dimensione specifica della vittima che era stata perseguitata, non a causa delle sue azioni, ma per il fatto di essere nata ebrea. “I partigiani avevano scelto il loro destino, noi non avevamo scelto niente. Eravamo solo vittime umiliate, animali marchiati.”
Lo stesso destino paradossalmente si presentò anche in Israele, dove fino al processo Eichmann nel 1960 che rappresentò un grande momento di riflessione morale in tutto il paese, si presentavano i sionisti che erano venuti a vivere in Israele come eroi, mentre si consideravano gli ebrei della diaspora che erano finiti nei campi vittime passive.
Moshe Bejski, l’artefice del giardino dei giusti di Yad Vashem, ricorda che fino al processo Eichmann non rivelò mai la sua identità di sopravvissuto ad Auschwitz e la sua salvezza nella lista Schindler, perché non si sentiva a suo agio. E durante il processo si adirò pubblicamente con il giudice Hauser che gli aveva fatto a bruciapelo la domanda che più lo angosciava in Israele: “Perché non vi siete ribellati nel campo di Plaszow quando impiccavano i vostri compagni?”. La sua risposta fu perentoria. “Lei non capisce, non c’era alcuna possibilità di ribellione nel campo e anche se ci fossimo riusciti, nessuno in Polonia ci avrebbe aiutati. Il nostro destino era di morire.”
Se comunque in Europa la battaglia per la memoria, sia pure difficile e complessa, ebbe dei risultati importanti, invece in Russia e nei paesi dell’Europa sotto la dominazione sovietica fino alla caduta del muro di Berlino fu praticamente un argomento tabù. In Russia c’è sempre stato un processo di negazione della specificità del destino ebraico e si sono equiparate le vittime ebraiche alle vittime del capitalismo e del fascismo. Il nazismo era soltanto quello che aveva colpito la Russia durante la guerra, un concetto del resto usato strumentalmente nell’aggressione all’Ucraina, descritta come un paese in mano ai nazisti, mentre l’intera comunità ebraica si è schierata dalla parte del presidente Volodymyr Zelensky per la difesa della sovranità della nazione.
Così nella narrazione pubblica si taceva che lo scopo fondamentale del nazismo durante la guerra fosse la distruzione degli ebrei e si rimuovevano le complicità della popolazione russa nello sterminio degli ebrei durante l’occupazione nazista in Russia ed in Ucraina. Non è un caso che per impedire una riflessione morale sulla soluzione finale e sulla sorte degli ebrei venne censurato “Il libro nero: il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945” a cura di Vasilij Grossman e Il’ja Ėrenburg (1994 – Mondadori 1999) che del resto era stato commissionato dal comitato antifascista ebraico.
La motivazione fondamentale del sequestro del libro, che uscirà unicamente in Occidente, fu che “il filo conduttore è l’idea che i tedeschi abbiano fatto la guerra all’Urss allo scopo di annientare gli ebrei.” Così, per anni in Russia non furono mai costruiti memoriali che ricordano l’annientamento degli ebrei. Per il regime erano tutte vittime sovietiche del nazismo e non si doveva per questo fare una differenza.
Il caso più eclatante è quello del memoriale di Babij Jair in Ucraina ( Anatolij Kuznecov, Babij Jar, 1970, Adelphi 2019) dove furono massacrati in un solo giorno 3371 ebrei, ma la parola ebreo non appariva nella lapide. “Non c’è un monumento / A Babij Jar / Il burrone ripido / È come una lapide / Ho paura / Oggi mi sento vecchio come / Il popolo ebreo / Ora mi sento ebreo…”, scrisse il poeta Evgenij Evtušenko nel celebre poema che dà il titolo alla Tredicesima Sinfonia (1962) di Dmitrij Šostakovič.
A questa rimozione si aggiunse il marchio di vergogna che colpì il mondo ebraico in Russia e che ancora oggi ha pesanti conseguenze nel mondo arabo: l’accusa di sionismo. Sionista era potenzialmente ogni ebreo, accusato di avere una mentalità cosmopolita, una doppia identità nascosta, un essere non affidabile, quinta colonna del capitalismo e dell’imperialismo che rappresentava una minaccia per il socialismo. Un aggiornamento sovietico dei Protocolli di Sion.
Cominciò così la persecuzione nei confronti degli intellettuali ebrei e fu messo fuori legge il comitato antifascista ebraico accusato di sovversione.
Nell’ottobre del 1946, il ministro per la Sicurezza di Stato, Abakumov, inviò una nota al comitato centrale intitolata “Sulle tendenze nazionaliste del comitato antifascista ebraico” e il 19 dicembre 1947 cominciarono gli arresti dei membri del comitato. Solomon Michoėls fu trovato morto a Minsk, in seguito ad uno strano incidente stradale e alcuni mesi dopo, il 21 novembre del 1948, il comitato antifascista ebraico fu chiuso con la motivazione che si era trasformato in un centro di attività̀ antisovietica.
Iniziò così la repressione contro gli ebrei. Centinaia di intellettuali furono arrestati. Furono colpiti decine di quadri ebrei che lavoravano nella Sicurezza. Fu arrestato lo stesso ministro della sicurezza, Abakumov, accusato di avere tentato di “impedire che fosse smascherato un gruppo criminale costituito da nazionalisti ebrei infiltrati al più̀ alto livello del Ministero della Sicurezza di Stato.” Era iniziata in grande stile l’operazione che doveva denunciare il grande complotto “giudeo-sionista.”
Nel febbraio del 1952 si svolse nella massima segretezza il processo ai membri del comitato antifascista ebraico: 25 dirigenti furono condannati a morte e immediatamente giustiziati, mentre un centinaio furono mandati nei gulag. Un anno dopo, il 13 gennaio 1953, la “Pravda” annunciò la scoperta di un complotto ordito dal “gruppo terrorista dei medici” per uccidere importanti capi sovietici, approfittando della propria posizione professionale. Si fece risalire a loro la morte di Andrej Zdanov e di Aleksandr Scerbakov. Dei quindici medici, arrestati in gran segreto fin dal mese di ottobre del ’52, più̀ della metà erano ebrei.
Si disse che costoro erano stati ingaggiati dall’Intelligence Service inglese attraverso la più famosa organizzazione di assistenza ebraica: l’American Jewish Joint Distribution Committee. Partì in grande stile una campagna che chiedeva la punizione esemplare dei colpevoli e denunciava il complotto sionista. Secondo quanto rivelato dall’ex Capo dello Sato sovietico Nikolaj Bulganin nel 1970, nelle intenzioni di Stalin il processo contro i medici ebrei doveva aprirsi a metà marzo e proseguire con le deportazioni in massa degli ebrei sovietici verso il Birobidzhan, ma la morte improvvisa del dittatore, il 5 marzo, bloccò la grande operazione antisemita.
Tutto questo avveniva nel paese che milioni di uomini consideravano il campione dell’antifascismo e della lotta all’antisemitismo. La campagna contro i sionisti ebbe immediate ripercussioni in tutto l’Est europeo. Un mese dopo l’arresto a Mosca dei medici ebrei, si apriva a Praga, il 20 novembre del 1952, il processo contro Rudolf Slansky e altri tredici dirigenti comunisti. Undici dei quattordici imputati erano ebrei. Furono accusati di avere costituito “un gruppo trockista-titoista-sionista”, nonostante fossero tutti dei convinti assertori del comunismo come superamento definitivo dell’ebraismo e considerassero il sionismo una degenerazione nazionalista.
Con il processo si voleva mandare alla società un messaggio molto chiaro: l’imperialismo stava cercando di sabotare il socialismo, utilizzando gli ebrei che si erano infiltrati nel partito comunista. Ogni ebreo era dunque un potenziale nemico, perché era il soggetto etnicamente e culturalmente più disponibile al tradimento.
Scriveva per esempio l’organo ufficiale del partito slovacco, il 23 gennaio del 1952: “Il sionismo è l’ideologia dello Stato borghese ebraico, del nazionalismo ebraico borghese, attraverso la quale la borghesia nazionalista ebraica, al soldo dell’imperialismo americano, cerca di influenzare i nostri cittadini di origini ebraiche. È per servire il nostro nemico di classe che gli ebrei si sono infiltrati nei partiti comunisti al fine di distruggerli dall’interno. Così, anche alcuni membri del nostro partito sono caduti sotto l’influenza del sionismo. Si sono lasciati sopraffare dall’ideologia del cosmopolitismo e del nazionalismo borghese ebraico.”
Che il sionismo fosse una colpa “ebraica” era sottolineato dal modo in cui la stampa presentava gli imputati. Si metteva in rilievo che erano ebrei e si ricordavano i loro vecchi nomi:
“Il trockista ed ebreo nazional borghese Bedrich Geminder… André Simone, che in realtà si chiamava Otto Katz, una spia internazionale, sionista e trockista.. Hanus Lomsky, che si chiamava Gabriel Lieben…”.
Eduard Goldstucker, che era stato ambasciatore in Israele, e che quindi aveva tutte le caratteristiche per essere messo sotto accusa, ricorda come l’associazione fra i termini “ebreo” e “sionista” venisse sottolineata in continuazione durante i lunghi interrogatori.
“Dal giorno del mio arresto fui isolato dal mondo e sottoposto a interrogatori continui per ben diciotto mesi. Ogni volta che saltava fuori un nome ebraico, il poliziotto mi chiedeva: ‘è sionista?’ Voleva sapere se la persona in questione era ebrea, ma chiedeva: ‘è sionista?’ A un certo punto ne ebbi abbastanza, persi il controllo e gli domandai:” Mi dica, se venisse fuori il nome di Marx, lei mi chiederebbe ancora se è sionista? Rimase senza parole per qualche secondo e poi, dimenticandosi per un attimo della linea politica, mi chiese: ‘Era ebreo anche lui?’ Disse ‘ebreo’, non sionista! Che Marx fosse ebreo, infatti, non veniva mai detto. Nell’enciclopedia sovietica il particolare era taciuto”.
Durante il processo gli imputati furono costretti sotto tortura e in nome del bene del Partito ad ammettere le proprie colpe. Tra queste c’era anche quella di essere ebreo. Rudolf Margolius, uno degli imputati, così confessò il suo peccato originale: “La mia attività sovversiva e ostile è la conseguenza del mio odio verso la classe operaia e il partito comunista. Sono stato educato a questo odio sin da bambino. Sono nato da una famiglia ebrea capitalista. Mio padre era socio di una azienda tessile e membro di una loggia massonica ebraica. Mia madre militava nella Wizo (Women International Zionist Organization – Organizzazione internazionale delle donne sioniste). Tutti i miei parenti erano attivisti sionisti, ed io sono stato educato nello spirito sionista. Ho aderito al partito comunista nel 1945. A quel tempo non solo ero in disaccordo con il programma del partito, ero anche un suo nemico. Intendevo assicurarmi una posizione vantaggiosa e ho approfittato dell’influenza di elementi ostili penetrati nell’apparato del partito, che appoggiavano l’infiltrazione della borghesia, in particolare di elementi ebrei borghesi insediatisi nell’apparato governativo e in quello economico.”
Il 27 novembre 1952 undici imputati, fra cui otto ebrei, furono condannati a morte; altri tre all’ergastolo. La corte motivò le condanne a morte affermando che “simili nemici della classe operaia devono essere eliminati dalla comunità̀ umana.”
Il processo Slansky costituì una sorta di mobilitazione popolare in nome della crociata antisemita, ma fortunatamente la risposta della società, in Boemia e Moravia, fu alquanto tiepida. Nonostante tutti gli sforzi, il partito comunista più̀ antisemita di tutta l’Europa orientale non riuscì a portare dalla propria parte la popolazione che ai tempi di Masaryk, prima della Seconda guerra mondiale, aveva dimostrato uno spirito di solidarietà nei confronti degli ebrei. I cechi non caddero nella trappola di associare le accuse agli ebrei comunisti con accuse indiscriminate nei confronti di tutti gli ebrei.
Altrettanto complessa fu nei paesi del blocco sovietico in Europa la questione della memoria e la condizione ebraica. Da un lato molti ebrei, dopo il trauma subito, preferirono rimuovere la loro identità e cercarono di trovare attraverso il comunismo una nuova assimilazione per non dovere più sentire il peso di un destino che tanti lutti aveva arrecato nelle loro vite. Furono i cosiddetti “ebrei invisibili” che preferirono persino cambiare i loro nomi pur di non doversi ritrovare una situazione simile all’Olocausto.
E immediatamente il dominio sovietico creò pesanti attriti tra gli ebrei e parte della popolazione.
L’ intellettuale ungherese Erdélyi fotografava così la diversa percezione che ebrei e non ebrei avevano a Budapest dell’Armata rossa: ““Noi e gli altri ebrei sopravvissuti abbiamo solo potuto constatare che erano stati i soldati sovietici e non altri ad averci strappato a una morte certa. Questo fatto però ci separava dagli altri ungheresi piuttosto che unirci a loro, che avevano vissuto in modo completamente diverso la liberazione da parte dell’Armata rossa. Potevano gioire oppure considerarla una catastrofe nazionale. Altri potevano provare vergogna per essersi mostrati incapaci di liberarsi con i propri mezzi. Altri ancora, con meno vergogna di sé stessi, potevano domandarsi se non sarebbe stato meglio essere liberati dagli anglosassoni, piuttosto che dai russi. Per noi invece le cose erano chiare: eravamo sopravvissuti perché erano arrivati i russi.”
I soldati sovietici erano dunque per gli ebrei i veri eroi, mentre la maggioranza degli ungheresi li vedeva come nemici che occupavano e smembravano il paese. L’Armata rossa rappresentava per loro il segno più tangibile dell’inizio dell’oppressione da parte di una potenza straniera.
Il caso più clamoroso fu quello della Polonia. Ebrei e polacchi avevano avuto lo stesso nemico, avevano pagato l’invasione tedesca con milioni di morti, eppure ebbero una percezione completamente opposta della nuova situazione determinatasi con la presenza sovietica.
Non solo i sogni di un possibile riscatto non si incontrarono, ma ad un certo punto divennero addirittura antitetici.
L’anelito ebraico alla fine delle discriminazioni sembrò realizzabile nel quadro di un regime che però contemporaneamente minava le aspirazioni nazionali polacche. Così tra polacchi ed ebrei sopravvissuti nacque un nuovo cortocircuito. Per molti ebrei chi si opponeva al comunismo era sicuramente antisemita, nazionalista e di destra. Per i polacchi funzionò invece il meccanismo opposto: gli ebrei furono considerati la quinta colonna del regime comunista. Nacque così il mito della “giudecomune”.
Vedendo ai vertici del potere alcuni polacchi di origine ebraica arrivati da Mosca assieme all’Armata rossa, come Jakub Berman, Hilary Minc, Roman Zambrowski, molti ebbero l’impressione che alla resa dei conti i polacchi fossero le vere “vittime” della Seconda guerra mondiale, mentre gli ebrei erano i vincitori. Ma era solo un’illusione ottica. Notava il grande medico polacco Jerzy Szapiro: “Un polacco dopo la guerra era cosciente che gli ebrei erano stati le vittime, ma poi si accorgeva che governavano il paese. Risultato: pensava che la situazione degli ebrei fosse migliore della loro, mentre le vere vittime erano i polacchi…”
Così nel 1968 in Polonia l’antisemitismo diffuso nella popolazione fu strumentalizzato dal segretario del partito Władysław Gomulka che lanciò una campagna per cacciare dai vertici del potere tutti i dirigenti comunisti di origine ebraica. Fu una vera e propria rivoluzione culturale contro gli ebrei, che in assemblee pubbliche furono messi sotto accusa.
Ci volle in Polonia la nascita di Solidarnosc, a cui parteciparono il vicecomandante della rivolta del ghetto di Varsavia Marek Edelman, e i due intellettuali ebrei Adam Michnik e Kostanty Gebert, perché finalmente potesse nascere una discussione pubblica e libera sulla condizione ebraica in Polonia.
Poi la caduta del muro di Berlino nel 1989 permise che il percorso di elaborazione della colpa e la consapevolezza della dimensione della Shoah cominciato in Europa occidentale dopo la guerra potesse finalmente allargarsi al resto d’Europa. L’unificazione europea riguardò dunque anche la costruzione di una memoria comune. Finalmente gli “ebrei invisibili” d’Europa poterono far sentire la loro voce, senza paura e senza vergogna. Un percorso che invece ancora oggi in Russia risulta molto difficile.
Cosa invece non funzionò nella memoria ebraica e come mai nacque il discorso esclusivo ed irrazionale del genocidio ebraico che si presentò come unicità nella storia?
Due furono gli avvenimenti più importanti. In primo luogo, la guerra dei sei giorni del 1967, che con la minaccia all’esistenza di Israele e poi con la colpevolizzazione internazionale dello Stato ebraico, venne letta come una persecuzione che non finiva mai nella storia, un eterno ritorno senza speranza, una maledizione per gli ebrei condannati ad un antisemitismo eterno.
La Shoah era dunque una minaccia sempre dietro l’angolo, e gli ebrei per sopravvivere dovevano contare solo su loro stessi. L’abbandono del mondo, come era capitato durante il genocidio, sarebbe continuato nei secoli e dunque solo Israele poteva rappresentare una speranza, una diga contro l’antisemitismo. La conseguenza era che l’umanità era sempre contro gli ebrei e anche la Shoah non era più soltanto un crimine contro l’umanità, ma invece manifestazione di un crimine di tutta l’umanità contro gli ebrei.
A New York, poco prima della guerra, si tenne un grande convegno internazionale della rivista “ Juidaism , a cui parteciparono i più importanti intellettuali e teologi ebrei, tra cui Elie Wiesel, Richard Popkin, George Steiner, Emil Fackenheim. Steiner spiegò che i sopravvissuti portavano cicatrici terribili, ma dopo Auschwitz avevano una unica missione da diffondere nel mondo: “La nostra differenza è che proclamiamo che non c’è differenza tra gli esseri umani”.
Affermare di essere ebrei non significava costruire un mondo a parte, ma gridare sempre ad alta voce quando l’umanità viene oltraggiata.
Invece Elie Wiesel affermò: “L’Olocausto non può essere descritto, non può essere comunicato, è inspiegabile. Per me è un evento mistico. Ho quasi la sensazione di peccare quando ne parlo.”
Dunque, per Wiesel la Shoah rappresenterebbe l’unico evento storico che non si possa comprendere con la ragione. Esso sfuggirebbe alla possibilità di una conoscenza umana razionale e non si dovrebbe mai confrontare con nessun’altra esperienza di sopraffazione nella storia umana.
E Emil Fackeneim lo sostenne dichiarando che la Shoah non era comprensibile perché” era un male per il male, un male non per il piacere, il potere e il guadagno, altrimenti non si potrebbe capire perché si sottraevano i treni ai compiti militari per portarli ad Auschwitz.” Ma se non si comprende la Shoah con la ragione umana, come allora spiegarlo? Alcuni teologi come Ignaz Maybaum vi videro un progetto trascendente con caratteristiche messianiche di tipo apocalittico, secondo cui Dio fa progredire la storia dando corso al male.
La distruzione del Primo Tempio di Salomone nel 586 a.c. per opera dell’assiro Nabucodonosor facilitò la missione di Israele di diffondere nel mondo la conoscenza di Dio e della Torah. La distruzione del Secondo Tempio per opera di Tito permise la nascita della sinagoga ovunque nel mondo e fece comprendere che Dio poteva essere trovato ovunque e abolì i sacrifici rituali. La terza catastrofe avrebbe risvegliato l’umanità dalla idolatria, dall’autoritarismo e dalle persecuzioni.
Dunque, il concetto di “elezione” fa degli ebrei delle vittime sacrificabili per il bene dell’umanità.
Alcuni rabbini invece sostennero che quanto è accaduto nasce dagli stessi peccati degli ebrei che si sono allontanati dalla religione. Lo disse il rabbino capo della Palestina Yitzak Halevi Herzog, il 30 novembre 1942. Dopo avere ricevuto dettagliate informazioni sul genocidio in corso disse che era una tragica conseguenza dei peccati degli ebrei. Hitler come Nabucodonosor, inviato da Dio per un grande castigo.
Stesso concetto fu ripreso da Scherssonhn capo del movimento Chabad, (i Lubavich) che nel 1980 pubblicò un libro in Israele dove si parlava di un Dio chirurgo che per salvare un paziente è costretto ad amputare un arto malato nell’ebraismo. Da questa visione trascendente che vedeva cause extrastoriche nel destino degli ebrei si affermò una visione più laica.
Elie Wiesel, che non a caso mise l’accento sull’orgoglio ebraico nei ghetti e nei campi, (“Io credo nella necessità di riabilitare la fierezza ebraica anche in relazione all’Olocausto. Non mi piace pensare l‘ebreo come sofferenza, la propria e quella degli altri, perché la sua ha una dimensione messianica. Può salvare il mondo da una nuova Auschwitz”) aprì la strada ad una interpretazione secondo cui l’orgoglio degli ebrei avrebbe avuto una missione salvifica nel nostro tempo con la costruzione di Israele.
Anche se non detto esplicitamente gli ebrei erano morti dunque nei lager per una resurrezione in Palestina, non perché perseguitati come ebrei che avevano in mente nella loro vita ben altro destino e avrebbero continuare a vivere in pace nei paesi dove erano nati.
È assolutamente importante che Israele sia un avamposto per la lotta all’antisemitismo e per l’accoglienza degli ebrei perseguitati nel mondo dove trovare un luogo sicuro, anzi direi una necessità storica, ma questa interpretazione esclusiva con elementi religiosi ha poi impedito che la memoria della Shoah diventasse una forma di conoscenza per la prevenzione dei genocidi, dove l’unico genocidio nella narrazione di Israele è stato quello degli ebrei, e ancora oggi non viene riconosciuto quello armeno e in queste ore lo stesso Holodomor in Ucraina, che il presidente israeliano ha evitato di inserire nella categoria dei genocidi.
L’unico genocidio, dunque, rimane quello degli ebrei. È questa appunto la sua unicità, perché si tratterebbe di una categoria che riguarda solo gli ebrei. E dunque Israele sarebbe lo strumento fondamentale per impedire una nuova Shoah che colpirebbe solo gli ebrei.
Per questo l’emerito ex presidente della Knesset (parlamento israeliano) Abraham Burg ha chiesto, per ora inascoltato, che accanto a Yad Vashem sorgesse un tribunale permanente per i nuovi crimini contro l’umanità, e che il memoriale si trasformasse in una memoria di tutti i crimini dell’umanità, dove, accanto alla memoria della Shoah, si sarebbe dovute costruire “un’ala armena, una sezione serba ( denuncia della pulizia etnica), una mostra per il Ruanda e la Namibia, una per gli indiani d’America.”
Sarebbe il modo di manifestare pubblicamente al mondo che il “mai più” non riguarda solo gli ebrei, ma tutti gli esseri umani, perché i genocidi non riguardano solo gli ebrei. Non è un caso che la memoria ebraica si sia dimenticata di uno degli ebrei migliori: Raphael Lemkin, il giurista polacco che per primo ha coniato la parola genocidio e che si è battuto con successo nelle Nazioni Unite nel 1948 per fare approvare un nuovo comandamento morale con la convenzione per la prevenzione e repressione delle atrocità contro le minoranze; non commettere genocidi.
Se questo comandamento diventerà parte della memoria della Shoah in modo chiaro si potranno superare le trappole della memoria per le prossime generazioni.
Le citazioni sono ricavate da
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