Auschwitz non finisce mai – Le trappole della memoria (2)
Auschwitz non finisce mai – Le trappole della memoria (1) La memoria della Shoah ha un senso per farci comprendere il male estremo a cui può arrivare l’essere umano. Ci fa...
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Auschwitz non finisce mai – Le trappole della memoria (1) La memoria della Shoah ha un senso per farci comprendere il male estremo a cui può arrivare l’essere umano. Ci fa...
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La memoria della Shoah ha un senso per farci comprendere il male estremo a cui può arrivare l’essere umano. Ci fa comprendere come “le forze della notte”, di cui ragiona il filosofo Jan Patočka sono sempre immanenti in ogni epoca umana e la loro riconoscibilità è un compito a cui nessuno deve sottrarsi, allo stesso modo in cui siamo tenuti a riconoscere il bene e le “forze del giorno”.
Da questo punto di vista è importante, a livello pedagogico, istruire la società sulla possibilità dell’abisso a cui potrebbe arrivare la condizione umana, allo stesso modo in cui uno scienziato responsabile mette in guardia sul rischio possibile della distruzione totale del pianeta come conseguenza dei cambiamenti climatici. È questo il destino che ci attende se non siamo capaci di mettere in atto delle misure di prevenzione.
Ma ecco la trappola della memoria. Se si racconta solo l’abisso e non si individuano in ogni generazione le stazioni intermedie che possono farci scivolare nel baratro del male estremo non saremo in grado di trovare gli antidoti che possono preservare in ogni epoca la pluralità umana dalla sua possibile distruzione. Così il discorso dell’unicità, indipendentemente dalle migliori intenzioni, diventa una fuga dalla responsabilità. La memoria si trasforma così in una ritualità che fa comodo a quanti ci vogliono spingere in una cattiva direzione. Ci sono tanti sulla scena pubblica che si fanno vanto nei confronti degli ebrei e di Israele, ricordando retoricamente il genocidio degli ebrei, ma poi usano parole malate , propongono delle modalità di odio e di disprezzo verso l’altro, l’avversario politico, il migrante, lo straniero ( è questa la cultura del nemico che apre alle persecuzioni scritte e non scritte) , oppure che educano costantemente all’indifferenza nei confronti delle tragedie e delle ingiustizie che subiscono altri popoli. Pace per alcuni significa stare in pace, non sentire il fastidio dell’ascolto dell’altro e del dovere della prossimità. Sono i nuovi teorici della zona grigia.
È proprio il terreno della zona grigia che potrebbe riportarci inconsapevolmente al nuovo abisso il terreno su cui dovrebbe operare l’esercizio responsabile della memoria. Non potremmo mai prevedere il futuro, ma abbiamo il compito di individuare in ogni epoca le possibili stazioni del male che possono riportaci in mano alle forze della notte.
C’è infatti un filo invisibile che lega la memoria della Shoah ai discorsi di odio nei social, al disprezzo della persona sulla scena pubblica, a chi vuole mettere in discussione la democrazia e fare tacere l’espressione della pluralità umana, a chi introduce leggi ingiuste che impongono la discriminazione della donna nei paesi fondamentalisti o che mettono fuori legge gli Lgbt e le identità di genere, a chi vuole sopprimere la cultura delle minoranze, a chi nega il diritto di esistenza ad altri popoli.
È molto in voga la parola “banalizzazione”, quando si nega sulla scena pubblica l’enormità della Shoah e si fanno dei paragoni inappropriati, come accadde ad esempio quando i no vax indossavano la stella gialla sulle loro giacche.
Il negazionismo sottile è certamente un pericolo, perché riduce nell’immaginario collettivo la sofferenza del male estremo. Ma la più grande trappola della banalizzazione della Shoah è quando cessa di essere sulla scena pubblica una lente di ingrandimento in grado di accendere la nostra coscienza sui i nuovi mali nel tempo presente e si trasforma in una semplice fotografia di un tempo passato che non ci dà modo di metterci in gioco. È forse la memoria spettacolo dell’orrore che vediamo in tante gite di studenti ad Auschwitz che tornano emotivamente provati, ma poi non sono in grado di trasformare la loro esperienza di viaggio in una dimensione di responsabilità, perché i professori non li hanno guidati a guardare e a conoscere il mondo in cui vivono. Ai ragazzi non si insegna che si è giusti nel proprio tempo: il passato si riscatta solo con l’assunzione di responsabilità nel presente.
Quando un medico prescrive un vaccino contro il Covid ad un paziente non può prevedere se il farmaco gli servirà per evitare il contagio. Non è detto che il paziente possa incontrare una situazione che lo metta in pericolo. Può darsi che il vaccino sia una precauzione inutile. Ma quando il medico discute con il paziente gli spiega le possibili stazioni della malattia che potrebbe evitare: dalla febbre, alla infezione dei polmoni, fino alla possibilità di dovere lottare per la sopravvivenza in una camera di rianimazione in ospedale. È lo stesso procedimento che si dovrebbe seguire con la trasmissione della memoria. Bisogna mettere in guardia la società dalle possibili stazioni del male che potrebbero inquinare la condizione umana e creare una situazione estrema. Non sappiamo se effettivamente accadrà il peggio, ma il “vaccino della memoria”, se indica le possibilità del male contemporaneo allo stesso modo del medico che mette in guardia il paziente, può accendere la scintilla della responsabilità.
La memoria ha effetto quando plasma l’etica delle persone ed educa a nuovi comportamenti.
Molti ritengono che lo studio della storia e la sua divulgazione sia sufficiente per comprendere il passato tragico e per avere gli strumenti per prevenirlo. Non è così. Si può conoscere senza comprendere e rimanere passivi. Pochi hanno compreso la forza della scrittura di Primo Levi attorno alla sua prigionia ad Auschwitz. I suoi libri sono un grande insegnamento di etica, proprio da un luogo dove l’etica era stata sommersa assieme alle anime e ai corpi delle vittime. Chi lo legge entra ad Auschwitz non perché acquisisce nozioni, ma perché è costretto a fare un esame di coscienza su sé stesso, allo stesso modo che lo scrittore torinese lo ha fatto con straordinaria onestà attorno alla sua esperienza nel campo.
Quando Primo Levi indaga sulla zona grigia, distingue tra il Kapo che picchia con furore e compiacimento e chi invece trattiene la violenza del gesto; ricorda il gesto di un operaio che al di là del filo spinato gli ha offerto un maglione; si rammarica per avere nascosto un pezzo di pane al suo compagno per non doverlo dividere per sopravvivere, e in questo modo spinge il lettore che lo vuole ascoltare in profondità a fare un autoesame sulla propria esistenza.
E così veramente capisce Auschwitz perché a sua volta si interroga se nella sua vita gli è capitato di umiliare il corpo dell’altro, di rimanere indifferente di fronte ad una ingiustizia, o di avere cercato di preservare la sua bontà interiore minacciata da un ambiente che lo invitava a voltare la testa dall’altra parte per il suo quieto vivere. Una grande trappola della memoria è sempre stata quella di mettere in secondo piano l’educazione etica senza di cui non saremo in grado di modificare i nostri comportamenti.
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