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• 3 Febbraio 2023 – Gabriele Nissim

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Liliana Segre ha posto la questione fondamentale della memoria con queste parole: “Sono una delle ultimissime testimoni al mondo e con pessimismo e realismo dico che la Shoah sarà trattata in un rigo nei libri di storia, poi non ci sarà più neanche quello”.

Non si ricorderà dunque tra qualche tempo la Shoah. Non si parlerà più di quanto è successo agli ebrei. È lo stesso problema del negazionismo di ritorno che sentono gli armeni, ma anche i cambogiani e i ruandesi.

La domanda che si pone Liliana Segre mi ricorda le angosce di Levi dopo la sua liberazione dal campo quando sognava che al suo ritorno nessuno avrebbe creduto ai suoi racconti. Oggi c’è un incubo diverso: con la scomparsa dei testimoni si creerà un nuovo tipo di indifferenza e di rimozione.

Come risolvere questo problema? Sono convinto che ci troviamo ad una svolta nel discorso della memoria. La memoria degli ebrei come degli armeni e di altri popoli potrà durare nel tempo se saremo capaci di trasformarla in un punto di riferimento morale per la prevenzione di ogni male estremo.

È stata questa la grande intuizione dell’ebreo polacco Raphael Lemkin, che nel 1948 riuscì a fare approvare dalle Nazioni Unite la Convenzione per la prevenzione e la repressione dei genocidi. Il ricordo delle vittime e delle loro sofferenze si sarebbe perpetuato se l’umanità si fosse presa l’impegno morale di impedire nuovi genocidi. Fu questo l’impegno personale del giurista ebreo con le vittime polacche e con la sua famiglia sterminata ad Auschwitz.

Bisogna allora capire che cosa non ha funzionato. Tutto ruota attorno al discorso dell’unicità della Shoah che con il passare del tempo da una legittima rivendicazione di un riconoscimento internazionale del genocidio ebraico è diventato una vera e propria trappola per ebrei e non ebrei.

Le trappole per gli ebrei

Perché per gli ebrei? Raccontare la Shoah e la sua singolarità, come qualche cosa di totalmente diverso dagli altri genocidi, come del resto l’antisemitismo dalle altre forme di odio, o persino i giusti della Shoah come una manifestazione di resistenza morale degli esseri umani non paragonabile con altri contesti, con il tempo rischia di ghettizzare gli ebrei dal resto dell’umanità e di creare, nonostante tutte le migliori intenzioni, quella separatezza perenne a cui mirano in ogni tempo gli antisemiti.

Il primo anelito dei sopravvissuti della Shoah è stato quello di affermare sulla scena pubblica la loro eguaglianza con gli altri uomini e di affermare che il riconoscimento del loro dramma dovesse servire per il futuro ad un miglioramento di tutta la condizione umana. Oggi invece si rischia pericolosamente di presentare gli ebrei come un mondo a parte, facendo così perdere le possibilità di una vera empatia, senza la quale il dramma ebraico non può venire compreso. Viene così meno la possibilità di una alleanza tra gli ebrei e le altre minoranze perseguitate nella storia. Si riduce la stessa forza della battaglia contro l’antisemitismo. Venendo a mancare l’“esemplarità” della persecuzione ebraica essa non si ricongiunge più alle altre persecuzioni e non si dà modo di ragionare sui meccanismi universali che possono portare a nuovi genocidi.

Se uno studente in una classe nel “Giorno della Memoria” non capisce che quanto accaduto ad un ebreo potrebbe capitare un giorno anche a lui in qualsiasi parte del mondo, non sentirà più il bisogno di diventare parte di una catena della memoria e non si porrà domande sul suo futuro. La memoria diventerà così un obbligo fastidioso e non più un impegno morale. Di conseguenza, come spesso accade nelle scuole, scatterà un meccanismo inconscio di rifiuto.

La trappola più pericolosa per un ebreo, ma potrebbe valere anche per un armeno, un tutsi, o un cambogiano, è quando l’anelito al “mai più” che si ripete retoricamente in tutti i memoriali, diventa anelito soltanto per sé e per la propria gente. Come si può creare empatia quando si dice ripetutamente che il male non si deve riproporre soltanto per gli ebrei e non si dice invece che non dovrebbe colpire qualsiasi essere umano?

Il professore Yehuda Elkana ha scritto che dalla Shoah sono nati due popoli. Una maggioranza dice: “Questo non succederà più a noi”. Costoro monitorano costantemente l’antisemitismo nel mondo e le minacce nei confronti dello Stato ebraico e sembrano indifferenti agli altri e rimangono chiusi in loro stessi. C’è invece una minoranza che dice: “Questo non succederà mai più”. Costoro ritengono che la prevenzione dell’odio e dei genocidi debba riguardare tutta l’umanità, non solo perché il male non colpisce soltanto gli ebrei, ma perché gli ebrei fanno parte di tutta l’umanità.

È il secondo popolo che impedisce agli ebrei di cadere in una trappola che li isola dagli altri, poiché loro stessi si sentono parte del tutto e quanto accade agli altri li ferisce.

Le trappole per i non ebrei

Ma la trappola riguarda anche i non ebrei.

La memoria tutta concentrata sull’unicità della Shoah negli ultimi anni ha spesso impedito di indagare e di ragionare sugli altri genocidi del 900. Se infatti viene indicato un male unico, non in rapporto agli altri mali, e non si stimola una comparazione con quanto è accaduto prima e con quello che si presenta oggi, viene a mancare una riflessione sui meccanismi dell’odio che nel nostro tempo possono portare a nuovi genocidi e crimini contro l’umanità.

Così, per esempio, la società non è stata attrezzata a comprendere il legame tra la Shoah e il genocidio armeno, là dove un genocidio impunito e la mancanza di una legge internazionale di prevenzione di un crimine contro l’umanità negli anni ‘30 ha permesso ad Hitler di annientare gli ebrei nel mondo. E oggi il conflitto nel Karabakh tra armeni ed azeri è solamente considerato uno scontro tra due Stati e non una conseguenza di una ferita aperta, frutto di una mancata conciliazione tra armeni e turchi come è avvenuto in Germania con il riconoscimento della colpa da parte della nazione tedesca.

Di maggiore attualità è la mancanza di comparazione tra il nazismo e il totalitarismo sovietico, che come osservò Francois Furet nel suo testo più famoso, “Il passato di una illusione” (Mondadori, 1995), rimane un limite pesante a causa di un pregiudizio positivo, che consiste nel pensare che l’esperimento sovietico che portò ai gulag e ai milioni di morti fosse stato fatto a fin di bene e non fosse invece una modalità politica di distruzione della pluralità umana.

Così sono molti in questi giorni, abbagliati da un’illusione pacifista, che non hanno compreso la dinamica che ha portato all’invasione russa dell’Ucraina, come se si trattasse solo di risolvere un conflitto deprecabile tra due potenze militari. Non solo non si è indagato l’Holodomor, la carestia per fame di Stalin, sotto la categoria di genocidio che ha colpito gli ucraini, come osservò Raphael Lemkin, a causa della loro resistenza alla dominazione sovietica, ma non si è compreso che quanto sta accadendo oggi è un nuovo tentativo di genocidio culturale di una nazione da parte della Russia di Putin.

Lo ha spiegato bene lo studioso americano dei genocidi Timoty Snyder, che per primo ha osservato che in questo conflitto si è manifestata l’intenzionalità di negare l’identità di una nazione considerata non degna di una vita autonoma, perché considerata parte della Russia. Una delle caratteristiche che possono portare ad un tentativo di genocidio, come affermato nella Convenzione dell’Onu sul genocidio del 1948, è la prova di intenzione.

E lo stesso Putin lo ha confessato apertamente, dicendo che “Affermare che non esiste una nazione o uno stato significa rivendicare il diritto di distruggerla. “De-nazificazione” e “smilitarizzazione”, i due obiettivi di guerra che Putin ha annunciato il 24 febbraio, il giorno in cui è iniziata la sua invasione, non significavano altro che questo”. De-nazificazione” significa: l’eliminazione delle persone che non capiscono che l’Ucraina è parte di una Russia più grande… Ma sotto c’è la politica: “de-nazificazione” per Putin significa solo la licenza di uccidere o di deportare. Poiché il termine “nazista” non si riferisce a nessuno in particolare, è una giustificazione per una guerra e una pulizia senza fine.”

E quando si vuole negare il diritto all’esistenza di una nazione libera si usano poi tutti i mezzi per annientarla. È questo il motivo di una aggressione mirata alla distruzione della resistenza della società civile. Non avrebbero dunque diritto di esistere gli ucraini che vogliono affermare la loro identità. Così da un genocidio culturale possono nascere le peggiori atrocità di massa. Ecco perché i russi bombardano in modo sistematico le centrali, le fonti di approvvigionamento, gli ospedali, le infrastrutture civili. Non è una guerra di un esercito contro un altro esercito, ma un tentativo di distruzione di una diversità umana.

La trappola del male unico

La trappola dell’unicità della Shoah, inteso come se fosse il Bing bang irripetibile che ha dato origine all’universo, ha poi altre conseguenze. Impedisce di comprendere che non esiste un male unico nella storia umana: il male si può ripetere, se non nella sua totalità e nella sua forma estrema, in tanti aspetti parziali che gli assomigliano.

“Se dicessimo che è stato unico”, osserva Yehuda Bauer, “cioè che ne è accaduto uno solo nella storia, potremmo dimenticarlo, perché non avrebbe più importanza per i vivi: è successo una volta e non verrà ripetuto”. Anche “unicità” implica che sia intervenuto qualche fatto extrastorico, qualche Dio, o qualche Satana. Ma il genocidio degli ebrei fu il prodotto dell’azione umana e quelle azioni furono prodotte da motivazioni umane. Nessun Dio o Satana era coinvolto. Pertanto, l’Olocausto è stato senza precedenti, non unico. Il che significa che era, o può essere un precedente e che, di conseguenza, dovremmo fare tutto ciò che è in nostro potere affinché non diventi un precedente, ma sia un monito. Questo è il collegamento principale tra affrontare l’Olocausto e affrontare il genocidio.”

  • Auschwitz non finisce mai – Le trappole della memoria (2)
  • Auschwitz non finisce mai – Le trappole della memoria (3)

Nell’immagine: il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, a Berlino






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