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Maurizio Chiaruttini
Maurizio Chiaruttini
Anche la lingua conta
• 16 Giugno 2021 – Maurizio Chiaruttini

Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole

Ho nostalgia di Franco Liri. Non perché sia diventato il simbolo di una battaglia che pure condivido, quella in difesa del Parlato di Rete due. Ne ho nostalgia proprio in quanto autore della Costa dei barbari, la trasmissione che per tanti anni, con leggerezza e rigore, ha diffuso il rispetto per la lingua italiana, per le sue regole e la varietà dei suoi registri.

Nel corso degli anni Ottanta, dopo un periodo di assenza dal palinsesto, la Costa dei Barbari prese nuova vita sotto la responsabilità produttiva di Luigi Faloppa, allora capo del settore Parlato di Rete due. Franco Liri  (pseudonimo di Bixio Candolfi, che ideò il programma assieme a Gabriele Fantuzzi) tornò a scrivere i testi e Flavia Soleri, Luigi Faloppa e Febo Conti ripresero a interpretarli al microfono improvvisando battute e commenti scherzosi. Si divertivano e facevano divertire gli ascoltatori. Ma erano ben consapevoli del loro ruolo di istanza critica di fronte all’uso maldestro dell’italiano e della necessità di richiamare anche i giornalisti alla loro responsabilità nei confronti della lingua.

Come molti ricordano, accanto alle rubriche dedicate agli errori nei testi pubblicitari e negli articoli di giornale, ce n’era una intitolata «Alla radio e alla tivù fanno a chi ne fa di più». A quell’epoca, Rete due era un punto di riferimento importante anche per gli altri settori della RSI. I suoi giornalisti venivano interpellati sui temi culturali ed erano chiamati a fornire contributi alle testate informative. E l’autorevolezza della rete si esprimeva anche attraverso le competenze linguistiche e i corsi di dizione del capo del Parlato, che non mancava, quando era il caso, di prendere il telefono per segnalare direttamente ai colleghi errori, imprecisioni e goffaggini nell’uso della lingua.

Lo spunto per queste considerazioni e questi ricordi mi è venuto dall’ultima Newsletter della Corsi, nella quale possiamo leggere il rapporto del Consiglio del pubblico sulle Cronache della Svizzera italiana. Dopo aver segnalato «qualche sbavatura linguistica che comunque non intacca il giudizio positivo» e aver poco elegantemente fatto il nome e il cognome di un redattore che ha definito «clienti» i visitatori dei musei, il rapporto si conclude con una serie di «domande alla redazione». Una suona così: «Intervistato sulla folle notte in una scuola del locarnese, il Presidente del Consiglio di Stato si dice “incazzato” (citazione). Giusto che il servizio pubblico sdogani, seppur detta da altri, tale espressione? Che limite dare all’utilizzo del registro da parte degli intervistati, indipendentemente dal loro ruolo istituzionale?».

Il fatto è che il populismo si esprime anche nell’uso della lingua, nella caduta delle distinzioni tra registro alto e registro basso, discorso formale e discorso informale, e nella confusione (consapevole o no) tra il tono colloquiale e la lingua da bar. E purtroppo gli stessi giornalisti non sono immuni da questa forma di populismo. Espressioni prese pari pari dal dialetto come «alla fine della fiera», «la NZZ ci va giù abbastanza pesante», «si chiude baracca e burattini», «il parlamento non ne arriva a una», pronunciate non nel contesto di in un informale talk show, ma nell’ambito di trasmissioni informative basate su testi scritti, ne danno testimonianza.

Quest’uso trasandato dell’italiano può indurre a pensare che sia venuta a mancare la consapevolezza del fatto che la lingua è un organismo vivo e stratificato, che risponde ad esigenze diverse in contesti comunicativi diversi. Se assumiamo, al contrario, che nei giornalisti tale consapevolezza ci sia (e io sono sicuro che c’è), allora dobbiamo dedurre che siamo di fronte a una decisione: la decisione di usare la lingua senza fare distinzioni di registro per «essere più vicini all’ascoltatore». Non rendendosi conto che si tratta, a ben guardare, di una scelta irrispettosa proprio nei confronti del pubblico. È l’equivoco del «parlare come si mangia» che, come ha osservato Virginio Pedroni in un suo intervento sul prospettato ridimensionamento di Rete Due, induce alla fine a bandire anche la forchetta. Il discorso vale per la RSI come per i giornalisti della carta stampata (i «colleghi della stampa scritta», come vengono designati con un goffo pleonasmo) e del digitale.

Ma il fatto aggravante è che non si tratta solo di scarsa eleganza: la trascuratezza — complice la disattenzione e forse la fretta — tocca anche il piano del lessico, della grammatica e della logica. Cosa avrebbe detto Franco Liri di fronte a frasi come queste: «più di 12000 euro al mese: è a quanto si aggira lo stipendio dei parlamentari», «… uno studio realizzato da un team internazionale, tra i quali anche esperti dell’istituto federale», «mille persone sono in quarantena, il che significa che chi lavora non può andarci», «a ciò coincide una riorganizzazione del personale»? Cosa avrebbero detto a La Costa dei barbari  di estrose invenzioni lessicali come «la crisi pandemica ha dopato i pacchi spediti dalla posta», «dopo un anno di prolungo», «la partita è stata rinviata a data da destinarsi»?

Come detto, il fenomeno non è limitato alla RSI. La trascuratezza e il degrado linguistico oggi sono ovunque: nei mass media, nei discorsi dei politici e, temo, anche nella scuola, se chi è uscito dall’università può scrivere su giornali e testate online frasi come: «Lo Zurigo passa a Cornaredo di giustezza», «Emilio T. è il più votato di un buon margine», «nessuno, a parte lo stesso Cassis, avrebbe trovato adoperabile la sua proposta».

Ma la RSI è servizio pubblico. Il suo mandato culturale e il suo ruolo educativo le dovrebbero imporre di distinguersi, non di adeguarsi. La lingua, per i giornalisti, è uno strumento del mestiere, e i buoni artigiani devono aver cura dei propri attrezzi.






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