Dacci oggi il nostro abisso quotidiano

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Da domani in libreria il primo romanzo della scrittrice romanda Odile Cornuz, uscito per le “Editions d’en bas” nel 2022 e appena edito in italiano dall’editore Capelli di Mendrisio


Michele Ferrario
Michele Ferrario
Dacci oggi il nostro abisso quotidiano

Ho seguito, il 21 febbraio, alla Filanda di Mendrisio, la presentazione, da parte di Yari Bernasconi, del libro di Odile Cornuz, che avevo appena terminato di leggere. Davanti alla scrittrice campeggiava un grande vaso in vetro. Conteneva una decina di rose a stelo lungo, anzi lunghissimo. Aperte, turgide, nel pieno della fioritura. Ma (almeno viste da una certa distanza) quelle rose erano artificiali: in stoffa, o più probabilmente, in plastica. 

Rose sintetiche, insomma, accoglievano un’autrice e un libro che ci parlano d’amore, del sentimento più profondo che si possa provare, idealizzato ma potenzialmente distruttivo, che Cornuz, in 166 pagine, descrive nella sua fragilità crescente, nella sua incapacità cronica di resistere, rinnovarsi, perdurare.

Anche se inizialmente attratti, disposti a prendersi per mano e a trasformare due itinerari individuali in un percorso comune – sembra dirci l’autrice – solo in casi rari e straordinari, due individui riusciranno ad arrivare insieme fino in fondo, a completare il miracolo per cui 1+1 fa ancora 1, un 1 diverso che non è somma, ma sintesi. Una nuova unità capace di includere, rispettare, tollerare, esaltare le specificità dell’altro. Espressioni come “l’altra metà” o “la mia metà”, sono dunque, per lo più, dei luoghi comuni, forzature nel lessico banale delle consuetudini, del tutto assenti nella realtà quotidiana di miliardi di persone.

La presentazione del libro alla Filanda di Mendrisio – Foto di Michele Ferrario

Proprio quel mazzo di rose poste davanti al tavolo della Filanda, al quale sedevano autrice, traduttrice, lettrice e presentatore – che, a guardarle da lontano, sembravano pervase da una vitalità esplosiva e incontenibile, ma osservandole da vicino si rivelavano pura finzione, e dunque inganno – quel mazzo di rose cimiteriali rappresentava perfettamente la parabola di coppia descritta in Fucile, appena tradotto in italiano da Carlotta Bernardoni-Jaquinta per Gabriele Capelli Editore.

Romanzo? Racconto lungo? Poco importa: preceduti da un Prologo e chiusi da un Epilogo, sono 30 capitoli (altrettante tappe di una laica via crucis matrimoniale), brevi o brevissimi, ognuno dei quali introdotto da un disegno dell’autrice che, con pochi, semplici tratti di penna, raffigura altrettanti oggetti della vita domestica, ciascuno con un proprio ruolo specifico. Spazzola, metro da sarto (che diventa per la protagonista una specie di clessidra), televisione, VHS, filodendro, skate, bracciale, guinzaglio: tutti senza articolo, spettatori apparentemente muti e a tratti particolarmente inquietanti della vita di coppia, che assumono un ruolo attivo e costituiscono uno dei motivi di originalità del libro. Oggetti che, nel momento della separazione e della loro spartizione, diventano a loro volta fonte di dolore poiché richiamano momenti-episodi talvolta felici, talvolta drammatici, riportando in superficie ricordi, suoni, voci che vorremmo sopite per sempre, ma impossibili da cancellare. Voci che riaprono ferite e scatenano nuovi interrogativi, nuove angosce se possibile più devastanti ancora delle derive che la coppia ha attraversato.

Tra questi oggetti disegnati come in una sorta di gioco da Odile Cornuz, non c’è il fucile, che compare solo nel Prologo e nell’Epilogo. Oltre 15 anni dopo la separazione – così inizia questo romanzo-non romanzo – lui telefona alla ex compagna chiedendole di quella carabina che aveva prestato al padre di lei in un’epoca lontanissima (solo apparentemente, poiché, appunto, tutto torna). Di colpo, dal nulla, da un passato che lei cerca di allontanare, o quanto meno di tenere a bada, quella telefonata irrompe nell’esistenza della donna, un’esistenza che lei sta provando a rimettere in sesto. Senza chiedere permesso, senza bussare, come un colpo di fucile.

“Quand’è che finisce? Come si fa a sapere quando finisce? Tutto ciò che è stato lanciato nello spazio e che sembra un legame fra due esseri. Tesse fili. Si aggroviglia. Eccome se si aggroviglia! E bisognerebbe passare la vita a districarli? O perlomeno la parte che viene dopo? Quella che segue il momento in cui i gomitoli se ne stanno lì tutti incasinati? Riprendere il filo, sì. Si sedette. Sarebbe rimasta su quella sedia per un momento. Avrebbe avuto bisogno di tempo per assimilare quello che era successo, che era insieme straordinario, grottesco e inaudito. Lentamente si alzò, spalancò la finestra. L’aria fredda regalò al suo corpo nuovi contorni”. 

Siamo negli anni ’90, verosimilmente in Romandia, ma i riferimenti geografici e temporali sono pochi e vaghi. Non se ne sente il bisogno: la vicenda ha valenza universale. I due protagonisti non hanno neppure un nome: anche di nomi non c’è necessità, poiché chiunque può riconoscersi nei personaggi di questo Kammerspiel e nelle situazioni in cui li incontriamo. Sono, insomma, dei tipi. 

La donna sta seguendo una formazione pedagogica; l’uomo, insegnante, appassionato cacciatore e pescatore, non apprezza (“Io lo trovo stupido, perdere tempo, e soldi! così. Lascia stare…”).  Rozzo, collerico, violento, individuo alfa, assume comportamenti sempre più meschini in un crescendo subdolo di iniziale seduzione, che ben presto – quando la preda ha abboccato all’amo – vira verso l’indifferenza, lo spregio e la violenza. Fisica ma, più dolorosa ancora, psicologica  e denigratoria – arrivando, per esempio, a chiamare la bimba che lei aveva avuto da una precedente relazione e che inizialmente aveva legato con lui, Ochsner (il noto marchio svizzero di pattumiere zincate), alludendo alla sua golosità. La ragazzina, che sembra paradossalmente la più matura e lucida tra tutti e sarà quella che si ribella, se ne renderà conto soltanto anni più tardi, ormai adolescente: 

“Un giorno, a casa dei vicini, la bambina aveva sollevato un coperchio, un coperchio di plastica grigio con una linguetta bucata per poterla afferrare meglio. La festa era finita, le donne erano prese a riordinare mentre gli uomini bevevano gli ammazzacaffè (…). Le indicarono una pattumiera da esterno in fondo alla terrazza. La bambina appoggiò il suo carico per terra per alzare il coperchio e si bloccò un attimo a mezz’aria, con la mano sulla linguetta con il buco. Ochsner, è il nome di una pattumiera? Si rifiutava di capire. Si rifiutava di fare il collegamento evidente. Non capiva perché. Non capiva come. Di solito capiva. Di solito, quando voleva capire, aveva le risorse necessarie. Ma in quel caso non ci riusciva. Perché le aveva sbattuto in faccia quel nome? Perché lo aveva scelto come soprannome? Perché sua madre glielo aveva permesso? Perché nessuno le aveva detto quello che voleva dire? Perché nessuno aveva considerato necessario proteggerla? Scelse di non dire niente, di gettare i rifiuti e di indurirsi subito”. 

Del libro colpiscono la forma e l’architettura insolita. È la stessa autrice, nata nel 1979, a spiegare di aver bisogno, quando si mette all’opera, di una sfida, da lei definita “estetica”, in grado di accendere in lei il desiderio di scrivere. Se nei lavori precedenti ha privilegiato la poesia e i testi teatrali, in questo caso è partita da oggetti che ha voluto non solo raccontare, ma anche disegnare, esplicitandoli con tratti grafici. Alcuni sono piuttosto misteriosi (la mosca del pescatore). Nella versione originale questi disegni illustrano la copertina: la versione italiana ha scelto un’altra via.

Questa premessa di natura formale si aggiunge all’importanza del lavoro sulla forma letteraria migliore, sulla lingua e sulla parola che – ha detto Cornuz in sede di presentazione – è addirittura molto più importante del contenuto, della storia in sé. Frasi generalmente brevi, asciutte, all’insegna della sottrazione, che lasciano ampio spazio all’immaginazione-interpretazione del lettore. “Une approche pointilliste” l’ha definita Odile. 

Fucile è un libro sul tema dell’emprise, termine francese che raccoglie in sé – esprimendoli in tutte le loro sfumature – i concetti di influenza, condizionamento, capacità manipolatoria, possessività, espressioni di predominio che tentano di imporre subalternità nell’altro. Il fucile è la rappresentazione visiva e metaforica di questa emprise, oltre che della minaccia che incombe, nella fattispecie, su madre e figlia, ma più in generale sulla stessa vita di coppia:

Quel mattino, l’esasperazione era venuta fuori così tutta di colpo – come una sbarra che cede. Lei aveva semplicemente detto che non funzionava più, che qualcosa doveva cambiare. Gli aveva chiesto se si rendesse conto che fra loro non stava più funzionando, che era tutto così ruvido, oppure piatto, che diventava semplicemente difficile andare avanti. Che non trovava più la vitalità (…). Lui se ne stava zitto. Non sapeva cosa dire. Forse quelle cose non le aveva viste, che non stava funzionando, che qualcosa non andava – o forse se n’era accorto ma gli andava bene così perché pensava di ottenere altrove quello che non trovava lì (…). Cos’aveva lei da rompere con quelle stupide aspettative romantiche? Roba da principessine che credono che la vita sia una cosa dolce, tutta cuori che battono e serate emozionanti, occhi negli occhi! Faceva meglio ad accontentarsi di quello che aveva e smetterla di sbavare dietro alla luna, quella rompipalle”. 

Nell’immagine: Odile Cornuz

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