“L’attacco di Hamas frutto di un’ organizzazione islamista fanatica e di una politica israeliana idiota”
L'ex ambasciatore israeliano in Francia Elie Barnavi scrive su "Le Monde" che "questa mini guerra del Kippur, come l'altra, rischia di sconvolgere l'equilibrio regionale" e che "la prossima Intifada è questione di tempo"
Ci sono eventi nella storia che sono allo stesso tempo sorprendenti e prevedibili. È il caso dell’attacco di Hamas agli insediamenti israeliani della Striscia di Gaza. Sorprendente per la tempistica, la portata e l’audacia senza precedenti dell’operazione e la devastazione che ha provocato, nonché, da parte israeliana, per la totale negligenza dell’intelligence militare e civile (Shin Beth) e l’iniziale disordine delle forze di difesa.
Scene da incubo: combattenti appollaiati su pick-up armati di fucili automatici, in stile Stato Islamico, che attraversano una formidabile barriera eretta a un costo di miliardi e irta di sensori tecnologici di ultima generazione; terroristi armati che marciano per un’ora, senza incontrare nessuno sul loro cammino, per conquistare città e kibbutz; uomini, donne e bambini colpiti a bruciapelo per strada o nelle loro case, presi in ostaggio a decine e portati oltre il confine, dove i social network li mostrano sfilare, picchiati e insultati; famiglie che soffocano nei loro rifugi, le cui grida disperate di aiuto riecheggiano alla radio; un radiocronista gazanese che trasmette in diretta (!) dal cortile di un edificio dove operano i terroristi; e, quando finalmente arriva l’esercito, combattimenti feroci strada per strada, casa per casa, tutto il giorno, la notte e di nuovo il giorno…
Prevedibile
Sorprendente, sì. Dopotutto, come ha potuto l’esercito più potente della regione, uno dei più potenti del mondo, come ha potuto un servizio segreto così efficiente, capace di localizzare un leader terrorista al terzo piano a sinistra di un edificio di trenta piani, non essere in grado di prevedere l’attacco e di prevenirlo?
È qui che entra in gioco la seconda parola: prevedibile. Perché quello che abbiamo appena vissuto non è stato decretato dal cielo. È il risultato della combinazione di due fattori: un’organizzazione islamica fanatica il cui obiettivo dichiarato è la distruzione di Israele e una politica israeliana imbecille a cui i governi che si sono succeduti si sono aggrappati e che l’ultimo ha portato al culmine.
Nel corso degli anni, tra Israele e Hamas si è sviluppato un equilibrio di potere, in cui Hamas è arrivato a godere di una sorta di diritto di iniziativa. È stato Hamas a decidere l’altezza delle fiamme, in base all’evoluzione dei suoi interessi. Così, se il Qatar, suo finanziatore, non si dimostrava abbastanza generoso per i suoi gusti, o abbastanza veloce, gli bastava una salva di razzi per trascinare Israele in una spirale da cui i suoi abitanti sarebbero usciti malconci. Ma ha ottenuto ciò che voleva al prezzo di un cessate il fuoco necessariamente di breve durata.
Per uscire da questo circolo vizioso, il governo di Gerusalemme avrebbe dovuto trovare una soluzione: la riabilitazione politica dell’Autorità Palestinese unita alla riabilitazione economica della Striscia di Gaza. Tuttavia, ciò presupponeva la resurrezione del “processo di pace”, mentre il disaccoppiamento delle due sezioni del territorio palestinese doveva proprio evitare questo. Alla fine, Hamas è stato molto utile.
Atmosfera di guerra civile latente
Con l’attuale governo, questa “politica” ha raggiunto il suo punto di perfezione. L’unica preoccupazione del primo ministro è quella di uscire dal pasticcio legale in cui si è cacciato, ha messo insieme una coalizione di ultraortodossi e nazional-religionari messianici – la versione ebraica di Hamas – la cui ultima preoccupazione è lo Stato di diritto, e con cui ha concluso un patto faustiano: lui guiderà i giudici della Corte Suprema, loro avranno la “Giudea-Samaria” biblica e il libero accesso al Monte del Tempio, sempre più occupato dagli zeloti.
Come sappiamo, questo patto ha avuto un prezzo: un’insurrezione civile nell’Israele democratico e liberale, un duro colpo alla coesione dell’esercito e dei servizi e l’atmosfera di guerra civile latente che ha preso piede nel Paese. Hamas, come Hezbollah a nord e il suo patrono iraniano a est, ha studiato attentamente la situazione.
Ma agli zeloti non importava, e nemmeno al primo ministro. Alla domanda su dove fosse l’esercito al momento dell’attacco, la risposta è semplice: in Cisgiordania. Dettaglio aneddotico: alla vigilia dell’attacco, un intero battaglione era stato assegnato a proteggere una preghiera pubblica e una “lezione di Torah” sulla strada che attraversa la città di Huwara, a sud di Nablus. È bastato questo per bloccare l’invasione dei commando di Hamas. L’operazione di Hamas non si chiama forse “Tempesta Al-Aqsa”? La prossima Intifada è questione di tempo.
Mini-Kippur
In questi giorni è stato inevitabilmente citato Il disastro della guerra del Kippur, di cinquant’anni fa. E giustamente. Anche la stessa arrogante “concezione” – non oseranno, sanno chi siamo, hanno tutto da perdere e niente da guadagnare – la stessa dolorosa sorpresa, gli stessi fallimenti iniziali… In un certo senso, oggi è ancora più umiliante. Allora avevamo a che fare con due eserciti nazionali superdotati che, oltre all’elemento sorpresa, godevano di una superiorità numerica. Oggi, sebbene Hamas abbia imparato molto, non è all’altezza di Tsahal. Peggio ancora, per la prima volta dalla Guerra d’Indipendenza del 1948, ha dovuto combattere su suolo sovrano.
Ma il paragone finisce qui. La guerra del Kippur è stata una prova suprema, esistenziale; per alcuni giorni, il Paese ha tremato sull’orlo di un precipizio. Niente di simile oggi, ovviamente. Eppure questo mini-Kippur, come gli altri, rischia di sconvolgere l’equilibrio regionale.
Una cosa è certa: il sogno di Benyamin Netanyahu di raggiungere un accordo con l’Arabia Saudita a spese dei palestinesi è in pericolo. È un assioma della sua diplomazia, apparentemente giustificato dagli “Accordi di Abramo” del settembre 2020, che gli Stati sunniti non si preoccupano dei palestinesi e che si può fare la pace ignorandoli. Tutto ciò si rivelerà complicato.
Chissà, forse l’indovinello di Sansone si rivelerà vero nella terra in cui lo propose ai Filistei (Giudici, 14-14): “Dal forte uscì il dolce”.
Elie Barnavi è stato ambasciatore di Israele in Francia dal 2000 al 2002. Storico e saggista, dirige il comitato scientifico del Museo d’Europa di Bruxelles. È autore di numerosi libri, tra cui “Israël-Palestine, une guerre de religion?” (Bayard, 2006), “Israël, un portrait historique” (Flammarion, 2015); “Dix thèses sur la guerre” (Flammarion,2015) Traduzione a cura della redazione
Nell’immagine: Elie Barnavi
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