Addio alla democrazia?
Per uscire dalla crisi della democrazia liberista è necessario uscire dal paradigma economico dominante e dalle sue intrinseche contraddizioni
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Per uscire dalla crisi della democrazia liberista è necessario uscire dal paradigma economico dominante e dalle sue intrinseche contraddizioni
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• – Aldo Sofia
Per uscire dalla crisi della democrazia liberista è necessario uscire dal paradigma economico dominante e dalle sue intrinseche contraddizioni
Democrazia, ultimo atto? è il titolo di un saggio, breve (137 pagine) ma molto importante di Carlo Galli – uno dei maggiori filosofi politici italiani e che per molti anni ha insegnato Storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna – uscito da pochissimo per Einaudi. Assolutamente da leggere, se si vuole capire – e l’invito è rivolto soprattutto ai giovani – cosa è successo alla democrazia e perché oggi si parla di postdemocrazia, intendendo con questo neologismo appunto una trasformazione radicale (e non certo in meglio) della democrazia, se non il suo annichilimento progressivo – con lo stravolgimento dello stato di diritto, del bilanciamento tra i poteri, e soprattutto dei tre elementi-base della democrazia ricordati da Galli e cioè libertà, uguaglianza e trasparenza; perché la democrazia cerca infatti (a differenza degli altri sistemi politici) di “far coesistere il potere con l’energia dell’autoaffermazione individuale e collettiva (la libertà), con l’intento di limitarne l’eccesso (l’uguaglianza), e con la finalità di istituire le strutture e le pratiche di una convivenza che le soggettività [individuali e collettive] possano riconoscere come opera propria” (la trasparenza).
Democrazie che oggi sono in deficit di libertà, perché comanda sempre di più l’impresa/capitale e il lavoro sempre di meno – l’impresa è tornata ad essere libera volpe in libero pollaio, come già scriveva Marx, ripreso da Galli; è cresciuta la sorveglianza di massa e il controllo; ci sono sempre più diritti individuali e identitari e sempre meno diritti sociali, che a loro volta sono però il presupposto per potere esercitare davvero diritti civili e soprattutto diritti politici di libertà; democrazie che sono pure in deficit di uguaglianza (semmai le disuguaglianze sono state una scelta politica e predeterminata del neoliberismo) e in deficit di trasparenza, non solo perché non sappiamo come funzionano gli algoritmi che ci fanno funzionare, ma il deep state prevale sullo Stato (“l’oscuro, opaco, segreto del potere politico mescolato a quello economico”- altro che trasparenza – e a quello mediatico e che insieme costituiscono il “triedrio del potere”).
E cresce così la sfiducia nella democrazia anche o soprattutto davanti “all’enormità del disagio sociale”, forse meno forte in Svizzera, di certo incombente altrove, Europa compresa. La liberaldemocrazia occidentale ed europea nata dopo il 1945, che aveva creato le condizioni, attraverso un compromesso tra capitale e lavoro, per la crescita economica che ha prodotto benessere, per le politiche di ispirazione keynesiana che hanno favorito una redistribuzione dall’alto verso il basso della ricchezza prodotta e l’introduzione di sistemi pubblici e universalistici di welfare (su questo e su altro la Svizzera ha fatto eccezione) – è stata sostituita da quella che Galli chiama la democrazia liberista – che rappresenta la quarta rivoluzione politica del Novecento, dopo comunismo, fascismo e appunto liberaldemocrazia. E dove tutto, cioè la società e gli individui e soprattutto la loro vita intera oggi ridotta a dati, è mercato e concorrenza, mercificazione e spoliticizzazione radicale e insieme compulsiva. La società non esiste, diceva l’ideologa del neoliberismo, l’ex premier inglese Margaret Thatcher, esistono solo gli individui. Infatti, il capitalismo è andato alla conquista del mondo grazie alla globalizzazione e alla deregolamentazione dei mercati finanziari e del lavoro, imponendo “le proprie logiche produttive, il disciplinamento radicale dell’antropologia”, divenendo appunto una forma di vita individuale e collettiva omologante e ormai egemone (non ci sono alternative!), con individui isolati e privi di legame sociale, apparentemente più liberi ma in realtà sempre più connessi/integrati – quindi meno liberi – nel sistema tecno-capitalista.
Ora anche la democrazia liberista è in crisi o sembra esserlo. E dunque? Certo nessuna democrazia è perfetta, scrive Galli, ricordandoci che, anzi, la democrazia, come la libertà, non è mai garantita per sempre, che sempre occorre farne manutenzione attraverso un pensiero che non sia semplificante (a questo pensano la tecnica e gli algoritmi/IA, il populismo/sovranismo, il neoliberismo, in Svizzera la Lega e l’Udc), ma complesso e consapevole e soprattutto critico. E “la critica – l’autocritica – è la prima àncora di salvezza delle democrazie; che hanno il loro principale nemico non nelle autocrazie esterne, né nelle ideologie anti-democratiche, ma nella mancata riflessione su sé stesse”.
Ma ne siamo ancora capaci, ne sono ancora capaci gli intellettuali, ne sono capaci i partiti politici – di fare pensiero critico e autocritica? Soprattutto le sinistre, che hanno invece abbracciato entusiaste la globalizzazione, del tutto incapaci – continua Galli – “di decifrare le contraddizioni socio-economiche” del sistema, prigioniere anch’esse “di uno schema produttivistico condiviso con il capitalismo” e tanto ingenue e arroganti “da pensare di poter piegare e governare a finalità progressiste le potenze del capitalismo scatenato”.
Questo mentre la tecnica – la razionalità strumentale e positivistica – “si pone ora come l’Assoluto, l’incontrovertibile; è il Dio terribile che invochiamo ogni momento, ai cui capricci ci pieghiamo, i cui misteri ci affascinano, la cui onnipotenza e onniscienza accogliamo con timore e speranza”. Ma anche verso la quale dovrebbe essere applicata la democrazia politica, per “contrapporre un diverso potere al potere che si serve della tecnica”. Perché il lato pericoloso della tecnica è il fatto che “non l’AI imita noi, ma che molti di noi sono già come lei”. Cioè siamo automatizzati nei comportamenti e nel pensare per semplificazioni e ripetizioni.
Alla crisi della democrazia liberista occorre rispondere, scrive Galli, con una democrazia politica. Con un popolo – non quello del populismo o del sovranismo – “che rivendichi la propria posizione di titolare della legittimità: che non voglia essere ‘neo-plebe’, ma iniziatore di una azione politica, innescata da minoranze, com’è ovvio […], ma unendo istanze politiche e sociali concrete”. E quindi importante è prendere consapevolezza “che la soluzione non sta in ‘più tecnica’, in ‘più emergenza’, in ‘più guerra’, ma in ‘più politica’: democratica, s’intende”. Ma davvero democratica. Una politica – ancora Galli – che nasca da un sapere critico-pratico, non da una improvvisazione populista”. Ricordando tuttavia – compito a casa che riguarda soprattutto le sinistre – che “per cambiare rotta è necessario uscire dal paradigma economico dominante e dalle sue intrinseche contraddizioni”.
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