Di Marco Contini, Repubblica
«Assomiglia al 1973. Ma è molto peggio». Misura le parole, Amos Gitai. Nella sua voce al telefono si sentono tutta l’emozione e la tensione accumulata in queste ore drammatiche, ma non rinuncia a dire la sua, in modo molto netto, su quanto sta succedendo nel suo Paese. E lui, regista israeliano molto apprezzato per i suoi film, del 1973 – la guerra del Yom Kippur che prese Israele completamente alla sprovvista nonostante le avvisaglie che Egitto e Siria si stessero preparando ad attaccare – ne sa molto. Proprio in questi giorni al Museo d’Arte di Tel Aviv sta per arrivare una sua mostra dedicata alla guerra di 50 anni fa.
La guerra del Yom Kippur scoppiò esattamente cinquant’anni fa, il 6 ottobre. Stavolta Hamas ha attaccato il 7, di sabato…
«Precisamente. I ricordi e le analogie si sovrappongono in maniera impressionante. Ma questa volta la situazione è ancora più grave. Nel 1973 l’Egitto ci attaccò nel Sinai e la Siria nel Golan, stavolta Hamas è entrata nei nostri kibbutz e nelle nostre città. Una cosa che non era mai successa dal 1948, da quando è nato lo Stato di Israele».
Si aspettava un attacco del genere?
«Cinquant’anni fa sì, ne vedevo i segnali. Stavolta forse era meno evidente, ma l’arroganza del governo (che nel 1973, appena sei anni dopo la vittoria clamorosa nella Guerra dei Sei Giorni si riteneva inattaccabile, ndr) è la stessa».
Cinquant’anni fa gli errori di valutazione del governo e dell’intelligence furono evidenti. E oggi?
«Oggi sono stati fatti errori ancora più gravi, da parte di un governo di messianici e opportunisti che fa di tutto per dividerci. È un cocktail pericolosissimo, in una regione popolata di fondamentalisti. Oggi serve prudenza, non arroganza. E la prima cosa da fare è smettere di provocare spaccature all’interno di Israele».
Dalle sue parole si sente tutta l’angoscia per la situazione. Quella di sicurezza, ma anche quella interna a Israele.
«Sì, perché Israele è guidato da un gruppo di irresponsabili impegnato a cercare di spaccare il Paese, di metterci gli uni contro gli altri: ebrei contro arabi, religiosi contro laici, ashkenaziti contro sefarditi (i primi sono gli ebrei provenienti prevalentemente dall’Europa del Nord e dell’Est, i secondi dai Paesi arabi, ndr), uomini contro donne, eterosessuali contro omosessuali…. Lavorano costantemente a frammentare la nostra società. Attenzione, non è un fenomeno esclusivamente israeliano: purtroppo vediamo dinamiche simili negli Stati Uniti, in Polonia, in Ungheria e anche in Italia. Ma la differenza è che l’Italia confina con la Francia e la Svizzera, in Israele abbiamo vicini molto diversi».
In questo momento, col Paese ancora sotto attacco, la spinta all’unità interna è fortissima…
«Certo, e credo che sarebbe molto saggio se ci liberassimo degli ultra-nazionalisti e cominciassimo a costruire una prospettiva diversa. Poi arriverà il momento che Netanyahu si faccia da parte».
Ora Israele muove l’esercito verso la Striscia di Gaza: nelle condizioni date, sembra inevitabile…
«Non lo so, non sono un analista militare e non voglio rubare il mestiere a nessuno. So però che a Gaza ci sono moltissimi ostaggi israeliani – giovani, vecchi, bambini – e che questo rende un’invasione ancora più pericolosa per le loro vite. Serve molta cautela».
Tutto questo sta avvenendo mentre Israele e Arabia Saudita sembravano a un passo dalla normalizzazione dei rapporti.
«Sono sempre favorevole a qualsiasi accordo. La questione fondamentale però è un’altra: i negoziati con i Paesi arabi non possono bypassare la questione fondamentale, che è quella palestinese. Rabin l’aveva capito perfettamente ed ebbe il coraggio di affrontarla a viso aperto – e proprio per questo venne assassinato. Ripeto, qualsiasi accordo è il benvenuto, ma dobbiamo cercare di creare un ambiente diverso qui, con i palestinesi, anziché illuderci di poter approfittare delle loro divisioni interne. Pensare di intavolare negoziati adesso è difficilissimo, ne sono consapevole, ma è l’unica strada da percorrere. Se vogliamo avere un futuro dobbiamo cercare faticosamente degli accordi, le azioni unilaterali sono controproducenti. Lo abbiamo visto nel 2005, quando Sharon decise autonomamente di abbandonare la Striscia di Gaza. E ora lì comanda Hamas».
Intanto la situazione precipita e ci sono centinaia di morti. Soprattutto civili
«Sono preoccupatissimo, e sotto shock. Ma dobbiamo cercare di mantenere una qualche dimensione di speranza, di costruire un diverso modus vivendi tra noi e i Palestinesi».