Tracce indelebili e strappi da ricucire
I luoghi e gli anni d’infanzia e giovinezza rivisitati da Claudia Quadri nel suo nuovo libro “Infanzia e bestiario”
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I luoghi e gli anni d’infanzia e giovinezza rivisitati da Claudia Quadri nel suo nuovo libro “Infanzia e bestiario”
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I luoghi e gli anni d’infanzia e giovinezza rivisitati da Claudia Quadri nel suo nuovo libro “Infanzia e bestiario”
Come già nei precedenti romanzi – da “Lupe”(2000) e ancor più da “Lacrima” (2003), passando per “Come antiche astronavi”(2008) fino a giungere a “Suona,Nora Blume”(2013) – anche in questa raccolta di brevi “racconti” o capitoli di una suite narrativa, il mondo di Claudia Quadri è uno spazio ristretto, quello di casa, dei dintorni, delle vie, dei prati e dei sentieri che, potremmo dire forse con eccessiva approssimazione, circondano le pendici del San Salvatore, e che nel tempo hanno progressivamente mutato aspetto, fra cantieri, costruzioni, abbattimenti (specie dell’albergo di famiglia) che hanno segnato non solo il territorio in senso proprio, ma anche, appunto, il modo di percepirlo e di conviverci dell’autrice, lungo il corso del suo costante vagabondare, accompagnata dalla presenza fedele del cane (prima Moira e poi Wisky, cui il libro è affettuosamente “dedicato”).
Ecco che è la percezione “animale” delle cose, della loro apparente immutabilità che invece diventa segno visibile del passare del tempo, del cambiare sotterraneo ma inesorabile del contesto “domestico”, a diventare il motore del particolare procedimento narrativo di Claudia Quadri, che nel descrivere il mondo interroga sé stessa e la propria storia personale, anche intima.
Ed ecco che il cane e gli altri animali (alla Lawrence Durrell), si moltiplicano e diramano in specie e caratteri, fra cavalli, mucche, lumache paperi ecc. nel suscitare, con le loro tracce lasciate su strade e sentieri, ricordi e memorie di un’infanzia ed una giovinezza costellate di incontri, piccole avventure, episodi anche comici, che con non poca ironia Claudia Quadri sa ricondurre ad un filo rosso tutto personale di crescita e maturazione che l’ha portata oggi ad essere mamma e nonna, ma ancora, per certi versi, quella ragazza d’allora, alla rincorsa del proprio misterioso futuro.
Ne abbiamo un esempio nel capitolo conclusivo del volume (che sarà presentato stamattina alle 11.00 alla libreria Casagrande di Bellinzona ed il prossimo 20 dicembre alle 18.00 al LAC di Lugano).
Lo proponiamo qui volentieri, ringraziando l’editore e l’autrice per l’autorizzazione. (e.l.)
Di notte in sogno mi aggiro in via delle Scuole, cerco un giardino. Era il giardino di una villetta, una delle tante demolite secoli fa. Per un po’ ci avrebbe abitato il jazzista Duca Marrer. Intrico vegetale, giungla che debordava attraverso la recinzione, guardavo. Il proprietario di casa, invitato dall’autorità comunale a mettere ordine in quella selva, avrebbe risposto picche: il giardino non andava toccato, mai e poi mai addomesticato! Era opera di un grande architetto paesaggista – mentiva. Vegetazione e mistero, una sedia di plastica sotto un fico. Passavo.
Di giorno, strizzando un po’ gli occhi, giardini e villette appaiono in filigrana dietro le facciate dei palazzi di sette, dieci, cento piani che li hanno sostituiti. Hanno l’opacità degli abiti fuori stagione appesi nelle custodie di plastica in attesa che qualcuno si ricordi di loro. Ecco l’albergo Schmid che faceva angolo; qui c’era la falegnameria; su un balcone inutile, rasoterra, c’era una gabbia di canarini. Qui, la bordura di narcisi.
Lo chalet della funicolare del San Salvatore c’è ancora, una vecchia toppa colorata su un vestito nuovo. C’entra nagott, non c’entra niente ma fa cartolina d’epoca, anzi, della Belle époque. E lì accanto un palazzo placcato di scaglie d’oro pare un lingòtt.
Di giorno, a Riva Paradiso si ristruttura un’autofficina. Nessuna cura è stata messa nel proteggere il piccolo mosaico su un pilastro. Ingrati: è un San Cristoforo, patrono dei viaggiatori, anche degli automobilisti! A lavori ultimati, sparirà. Wisky tira per attraversare verso una striscia di prato con finte colonne doriche, che interessano solo ai cani. Zampilla, cane, irrora le finte vestigia di un finto passato; quello vero si copre di polvere e detriti come il mosaico del santo, dall’altra parte della strada.
Di notte, in sogno, cammino nel giardino di un albergo. Riecco piante, muretti, il sentiero che percorreva il pendio, ecco il dondolo, il tavolo da ping pong.
Di giorno, invece del giardino c’è una casa d’appartamenti color bronzo.
Il cane annusa in giro, anch’io allungo il collo: nascosto dagli arbusti, dalle palme, c’è ancora un pezzo della vecchia recinzione, ferro battuto incrostato di ruggine. Guardare, scrutare: come se a partire da quella ferraglia lucidata a forza di sguardi, l’intero paesaggio potesse ricomporsi.
Sento tirare: il ricordo svolazza, si impiglia nelle curve del ferro. Con i miei ricordi d’antan, farò la fine di Isadora Duncan con la sua sciarpa di raso? Ma no, è Wisky che tira il guinzaglio, mi trascina dall’altra parte.
Gli aghi hanno un potere magico, ha detto Louise Bourgeois. L’ago serve a ricucire gli strappi. È una richiesta di perdono. Non è mai aggressivo. Non è uno spillo.
Ricucire gli strappi nel paesaggio dell’infanzia prima che si laceri del tutto: può darsi che i miei vagabondaggi, travestiti da passeggiate con il cane, siano ormai un lavoro di sartoria: camminare, rammendare. Eppure sembrava un paesaggio dato e immutabile. Mia madre apriva la cartina sotto gli occhi dei clienti, faceva crocette e, puntando sull’albergo, diceva: Wir sind hier – noi siamo qui. Quando ero bambina, quel paesaggio io lo attraversavo con le gambe diritte, le ginocchia ben disegnate. Tutto era in attesa, acquattato nel futuro.
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