Netanyahu ha reso Israele “radioattiva”. E gli ebrei in tutto il mondo sono più minacciati
Con nemici come Hamas e Iran dovrebbe avere consensi, ma ha sulla coscienza troppe vittime civili nella Striscia
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Con nemici come Hamas e Iran dovrebbe avere consensi, ma ha sulla coscienza troppe vittime civili nella Striscia
• – Redazione
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• – Redazione
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• – Maurizio Corti
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• – Aldo Sofia
Con una procedura che ha sorpreso e suscitato perplessità, Norman Gobbi annuncia tramite il suo legale di lasciare, temporaneamente, la direzione politica della polizia, ma non quella della magistratura. Il Consiglio di Stato accetta la decisione. E intanto spunta una lettera anonima
• – Rocco Bianchi
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• – Redazione
Uno studio uscito su “Nature Cities” stima che piantando nelle aree periurbane si potrebbe assorbire una quantità significativa di CO2
• – Redazione
Le proteste di Amnesty International e Human Rights Watch: “Ruolo incompatibile con le leggi che limitano la libertà delle donne”
• – Redazione
Con nemici come Hamas e Iran dovrebbe avere consensi, ma ha sulla coscienza troppe vittime civili nella Striscia
Israele oggi in è in grave pericolo. Con nemici come Hamas, Hezbollah, Houthi e Iran, dovrebbe raccogliere le simpatie di gran parte della comunità internazionale. Ma non è così: per come il suo primo ministro Benjamin Netanyahu e la sua coalizione di estremisti stanno combattendo la guerra a Gaza e gestendo l’occupazione della Cisgiordania, Israele sta diventando radioattivo e ovunque nel mondo le comunità ebraiche della diaspora sono sempre meno al sicuro.
Temo che la situazione stia per aggravarsi ancora di più. Nessuna persona in buona fede negherebbe a Israele il diritto all’autodifesa dopo gli attacchi del 7 ottobre di Hamas che in un solo giorno hanno provocato l’uccisione di 1200 israeliani. Le donne sono state seviziate e violentate, i bambini sono stati uccisi davanti ai loro genitori, i genitori davanti ai loro figli. Molti uomini, donne, bambini e anziani israeliani rapiti sono tenuti ancora adesso in ostaggio in condizioni terribili. E sono trascorsi più di 150 giorni dalla loro cattura.
Nessuna persona in buona fede, per altro, può osservare la campagna israeliana mirante alla distruzione di Hamas che ha provocato la morte di oltre trentamila palestinesi a Gaza, un terzo dei quali combattenti, senza giungere alla conclusione che qualcosa è andato paurosamente storto. Tra i morti vi sono migliaia di bambini, tra i sopravvissuti vi sono moltissimi orfani. A questo punto, gran parte di Gaza ormai è ridotta a una landa desolata di morte e devastazione, fame e macerie. La guerriglia urbana fa uscire il peggio dalle persone e questo vale di sicuro per Israele a Gaza. Si tratta di una macchia nera per lo Stato ebraico.
Ma Israele non ha creato questa tragedia da sola. La macchia nera si estende a includere anche Hamas. La milizia islamista ha scatenato il conflitto il 7 ottobre senza preavviso, senza protezioni o ripari per i cittadini di Gaza, e ha proceduto sapendo benissimo, per esperienza, che Israele avrebbe reagito bombardando le roccaforti di Hamas annidate nei tunnel sotto le case, le moschee, gli ospedali. Hamas ha dimostrato un disprezzo assoluto per le vite dei palestinesi, non soltanto degli israeliani. Hamas, però, era già contrassegnata come organizzazione terroristica. Non è un alleato degli Stati Uniti e non ha mai affermato di combattere in modo pulito.
Premesso tutto ciò, ben presto il prestigio di cui Israele godeva nel mondo potrebbe presto ricevere un altro brutto colpo per qualcosa che mi preoccupa fin dal primo momento, dall’inizio di questa invasione: Netanyahu ha mandato le Forze di difesa israeliane a Gaza senza aver in mente nessun piano coerente per amministrare il territorio, una volta smantellata Hamas o arrivati al cessate-il-fuoco.
Sono dell’idea che per Israele, per non parlare dei gazawi, vi sia un’unica cosa peggiore di una Gaza controllata da Hamas: ed è una Gaza senza nessuno al comando, una Gaza nella quale il mondo intero si aspetta di vedere Israele garante dell’ordine, ma Israele non possa o non voglia farlo, così da trasformarsi in territorio di crisi umanitaria intollerabile e permanente.
La mia recente visita al confine di Gaza mi ha lasciato l’impressione che questo sia l’esito finale al quale siamo diretti. Il 2 marzo, ho accompagnato Michael Kurilla, il generale al comando del Centcom degli Stati Uniti, in visita al crosspoint di Erez, tra Israele e Gaza. Kurilla era incaricato del lancio degli aiuti alimentari umanitari degli Usa che sarebbe avvenuto di lì a poco.
Con il rumore in sottofondo dei droni che ci sorvolavano e il boato lontano dei colpi di artiglieria, un comandante israeliano del posto ci ha detto che la maggior parte dei soldati israeliani dispiegati nella parte nord di Gaza, che comprende Gaza City, il centro urbano più grande dell’area, si erano ritirati verso la zona di confine con Israele o lungo la strada che divide Gaza nord da Gaza sud. Di conseguenza, mi ha detto un altro ufficiale israeliano di alto grado, i soldati israeliani e le truppe speciali sarebbero entrate e uscite da Gaza nord soltanto per prendere di mira specifiche minacce di Hamas, ma in sostanza nessuno stava fornendo o avrebbe fornito una governance quotidiana ai civili rimasti indietro, a eccezione di poche centinaia di combattenti locali di Hamas e dei leader di qualche banda locale.
Ho capito subito come fosse stato possibile, un paio di giorni prima, che si svolgesse quella caotica ressa durante la distribuzione dei viveri. Israele sta scalfendo il controllo che Hamas ha sulla popolazione, ma si rifiuta di essere responsabile con i suoi uomini dell’amministrazione civile di Gaza, e rifiuta all’Autorità Palestinese in Cisgiordania, che a Gaza ha migliaia di dipendenti, la possibilità di subentrare e di svolgere mansioni di questo tipo. Israele si comporta in questo modo perché Netanyahu non vuole che l’Ap diventi la forza di governo palestinese di Cisgiordania e Gaza, evenienza che le offrirebbe una chance di credibilità per trasformarsi poi, un giorno, in uno Stato palestinese indipendente.
In altri termini, Israele ha un primo ministro che, a quanto sembra, preferirebbe vedere Gaza trasformarsi in una nuova Somalia, governata da signori della guerra, e preferirebbe mettere a rischio i successi militari di Israele nello smantellamento di Hamas che allacciare una partnership con l’Autorità Palestinese o qualsiasi altra legittima istituzione di governo palestinese con ampia base e non capeggiata da Hamas – perché, qualora lo facesse, i suoi alleati di gabinetto dell’estrema destra, che sognano che Israele riesca a controllare tutto il territorio compreso tra il fiume Giordano e il Mediterraneo, Gaza inclusa, lo destituirebbero immediatamente dal potere. A quanto pare, il governo di Netanyahu spera di reclutare leader locali di clan palestinesi per occuparsi di Gaza nel periodo post-Hamas, ma dubito seriamente che questi sforzi saranno coronati da successo. Israele ha cercato di attuare questa stessa strategia in Cisgiordania negli anni Ottanta e ha fallito: quei leader locali sono stati spesso stigmatizzati e chiamati collaboratori e non hanno mai avuto abbastanza presa sul governo.
Mentre osservavo tutto questo a pochi metri dal confine, ho avuto due flashback, simili a due incubi a occhi aperti. Il primo è stato il ricordo di come gli Stati Uniti invasero l’Iraq con lo scopo di costruirvi un nuovo ordine democratico in sostituzione della tirannia di Saddam Hussein, missione che mi vide favorevole. Quando però si passò all’attuazione pratica, l’Amministrazione Bush sciolse l’esercito iracheno e il Partito Baath al governo senza aver nessun piano coerente pronto per creare una migliore alternativa di governo. Tanto bastò per trasformare molti iracheni anti-Hussein in nemici degli Stati Uniti e per creare le premesse dell’insurrezione contro gli Stati Uniti.
Il flashback numero due che ho avuto mi ha riportato al 22 maggio 2018, quando scrivevo vicino al confine tra Gaza e Israele un articolo che sarebbe stato intitolato «Hamas, Netanyahu e Madre Natura». Basandomi su dati ottenuti da ambientalisti israeliani e palestinesi, scrivevo di come Gaza ogni giorno sversava nelle acque del Mediterraneo circa cento milioni di litri di acqua non trattata. A causa dei rifiuti galleggianti, l’impianto di desalinizzazione di Askhlon ha dovuto chiudere molte volte i battenti per ripulire il mare e i suoi filtri dalla sporcizia di Gaza.
Israeliani e palestinesi dipendono gli uni dagli altri. Perduti lì, lo si sente qui. L’unica cosa da capire è se un giorno i due popoli riusciranno a dar vita a una interdipendenza sana o se saranno condannati a una interdipendenza deleteria. In ogni caso, si tratterà sempre di interdipendenza. Ogni comunità ha bisogno di un leader le cui azioni siano sostenute da questa verità basilare. Per il momento, nessuna delle due lo ha.
Traduzione di Anna Bissanti, 2024, The New York Times
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