Femminicidi
È arrivato il momento di una grande mobilitazione per l’«orgoglio maschile»: non in difesa (tardiva) delle donne stuprate, ma contro la violenza dei maschi, contro i maschi violenti
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È arrivato il momento di una grande mobilitazione per l’«orgoglio maschile»: non in difesa (tardiva) delle donne stuprate, ma contro la violenza dei maschi, contro i maschi violenti
• – Paolo Di Stefano
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• – Redazione
È arrivato il momento di una grande mobilitazione per l’«orgoglio maschile»: non in difesa (tardiva) delle donne stuprate, ma contro la violenza dei maschi, contro i maschi violenti
Certo, per noi il culmine è arrivato in questi giorni. Se le cose sono andate come sembra, la vicenda di Giulia e di Filippo aggiunge angoscia e motivi di riflessione seria e profonda anche, ma non solo, sull’educazione familiare. Perché quel che impressiona ancora di più rispetto ad altri casi è la giovane età dell’assassino, che per altro i genitori descrivono come un ragazzo «mite, normale, positivo», che «non ha mai torto un capello a nessuno…»: Filippo «ha sempre continuato ad amare Giulia». Fatto sta che siamo ingenui se, connettendo la sopraffazione al retaggio della cultura patriarcale, diamo per scontato che comunque la modernità abbia migliorato, con il benessere, anche le relazioni tra i sessi. Tant’è vero che mentre il numero dei delitti va in generale diminuendo quello dei femminicidi aumenta.
Erroneamente, il nostro immaginario tende a inquadrare l’abuso sessuale nel contesto adulto, ma scopriamo sempre più che quell’eredità arcaica è ben viva e resistente oltre ogni, appunto, immaginazione. Proprio negli scorsi giorni un convegno milanese dell’associazione «Senza veli sulla lingua» ci ha informato che il maltrattamento delle donne interessa sempre più i minorenni: l’età si sta abbassando anche perché cresce la violenza digitale. Ci ritroviamo dunque increduli di fronte a un ventenne che sprigiona il suo furore contro una coetanea colpevole di averlo lasciato e magari in aggiunta (ulteriore affronto) di volersi laureare prima di lui. Non uomini d’altri tempi, ma uomini di questi tempi, dunque.
E poi. Inutile chiedersi come sia stato possibile non cogliere, in famiglia, nella comunicazione quotidiana di una famiglia «normale», i segnali di tanta aggressività: tutti e sempre più scopriamo quanto ci sia indecifrabile la persona vicina (specie i figli, ahimè). Ma astraendosi dall’ultimo caso, bisognerebbe interrogarsi in profondità su come cresciamo i nostri figli (specie i maschi), con quali parole, modelli e valori. E come mai la violenza tra i sessi è tendenzialmente sempre, fin dentro la Generazione Zeta, a senso unico (maschi su femmine)? Cominciando a sgombrare il campo dal tormentone del «raptus», una specie di riflesso condizionato mentale che ci fa incasellare certe forme di brutalità dentro categorie tutto sommato rassicuranti.
Ma infine, senza colpevolizzare solo l’istituzione famigliare o quella scolastica, è una gigantesca questione che riguarda la società, anzi la cultura di una società. Prima di tutto, la cultura dei maschi. I quali non dovrebbero aspettare di essere chiamati a coorte dalle donne-vittime per solidarizzare, ma dovrebbero uscire spontaneamente dalla vergogna della zona grigia, muoversi – e in fretta – per iniziativa propria verso la pubblica piazza. Uscire (provvisoriamente) dalla solidarietà ed entrare nella lotta. È proprio arrivato il momento di una grande mobilitazione per l’«orgoglio maschile»: non in difesa (tardiva) delle donne stuprate, ma contro la violenza dei maschi, contro i maschi violenti.
Articolo scritto per il “Corriere della Sera”
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