Il fotografo che ha ritratto un’epoca
Ricordo di Alberto Flammer, scomparso a Verscio nei giorni scorsi all’età di 84 anni
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Ricordo di Alberto Flammer, scomparso a Verscio nei giorni scorsi all’età di 84 anni
• – Michele Ferrario
Una decisione da “voltamarsina”: appena cacciati dalla porta (2026) si tenta di far rientrare i Giochi dalla finestra nel 2030, dopo aver capito (in ritardo) che possono anche rendere
• – Libano Zanolari
Quando una manifestazione contro i tagli alla spesa pubblica viene definita come espressione irrazionale, da stadio, di una sinistra autolesionista, dogmatica e sognatrice
• – Alberto Cotti
Ricorre ogni 25 novembre la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Ben venga, se aiuta a non trascurare il fatto che pure tutti gli altri giorni sono giornate mondiali di violenza contro le donne
• – Federica Alziati
È arrivato il momento di una grande mobilitazione per l’«orgoglio maschile»: non in difesa (tardiva) delle donne stuprate, ma contro la violenza dei maschi, contro i maschi violenti
• – Paolo Di Stefano
Stampa / Pdf
• – Franco Cavani
Le Comunità ebraiche: “Lottiamo insieme affinché le violenze siano tutte superate”. Non una di meno: “Corteo aperto anche alle israeliane”
• – Redazione
Il primo stop ai raid utilizzato per cercare i dispersi, recuperare i cadaveri nelle strade, tornare sulle macerie della propria abitazione. 15mila morti, 7mila dispersi, 35mila feriti. E 1,7 milioni di sfollati. Anche ieri l’esercito ha sparato sui civili. E il governo israeliano assicura: è solo una «breve pausa, la guerra continua»
• – Redazione
È moralmente aberrante decidere di “risanare” il bilancio dello Stato scegliendo semplicemente misure che hanno più probabilità di essere applicate. La giustizia è una norma morale, non può limitarsi a una strategia contabile
• – Silvano Toppi
Il primo cessate il fuoco e lo scambio di una parte degli ostaggi con numerosi detenuti palestinesi non è ancora uno spiraglio di pace nella guerra fra Israele e Gaza
• – Aldo Sofia
Ricordo di Alberto Flammer, scomparso a Verscio nei giorni scorsi all’età di 84 anni
Proprio il giorno del suo trapasso stavo completando la lettura di Grenzland Tessin, il saggio del giornalista Alexander Grass, che Naufraghi/e ha recensito l’estate scorsa. Ebbene, sia per la significativa immagine di copertina (il cantiere autostradale della Biaschina nel 1982) che per arricchire le pagine interne, Grass ha coinvolto proprio Alberto Flammer, di cui vengono pubblicate 29 fotografie emblematiche. In queste immagini si alternano due volti del Ticino: quello periferico di una fienagione a Moghegno o di una processione religiosa a Foroglio; quello urbano, turistico, del boom edilizio, in cui le signore della Lugano bene sfilano sensibili ai dettami dell’alta moda importata da Parigi, Londra e Milano. La spaccatura tra i due mondi è sottolineata dalle foto che documentano la costruzione dell’autostrada o della diga della Verzasca. Opere che il Paese ha probabilmente avvicinato, ma anche irrimediabilmente tagliato, collanti scollati, cantieri sospesi tra terra e cielo che si affacciano sull’abisso.
Oggi, tentando di sottolineare alcuni dei grandi meriti del fotografo, rubo a Grass una definizione perfetta: “Con scatti come questi Flammer ha saputo gettare uno sguardo a tratti melanconico, a tratti accusatorio su un Ticino in cui si fa strada un caos tanto estetico che morale. Un Ticino che viene urbanizzato e sfigurato, in cui le identità vengono frammentate e smembrate. Un Ticino ben distante dai clichés turistici dell’allegra Sonnenstube, delle palme, dei boccalini e degli zoccoli. I reportage di Flammer sono il ritratto di un’epoca” (la traduzione dal tedesco è mia, in attesa che un editore ticinese provveda a proporre la versione italiana dell’intero libro).
Come ogni grande fotografo (i suoi miti erano stati Cartier-Bresson e Robert Frank), nelle sue immagini più “giornalistiche” Flammer ha ritratto e raccontato la trasformazione del nostro Cantone. I rudimenti li aveva imparati, tra i 16 e i 19 anni nello studio fotografico paterno a Locarno (“sembrava il laboratorio di un alchimista, di un chimico”), che avrebbe rilevato poco dopo. Grazie al suo talento collaborò ben presto con alcuni architetti suoi contemporanei (Livio Vacchini, Luigi Snozzi, più tardi Mario Botta), ma si dedicò anche ad artisti del passato (le monografie su Giovanni Antonio Vanoni e Filippo Franzoni) e del presente, collaborando con lo scultore Giovanni Genucchi e, a più riprese, con Flavio Paolucci. Fu attivo anche nel mondo della pubblicità.
Per tutti gli anni Settanta affiancò importanti autori ticinesi lasciando il proprio segno forte in alcune pietre miliari dell’editoria di quel tempo: penso all’elettrizzante (allora) Occhi sul Ticino, di Piero Bianconi (Armando Dadò Editore, 1972) e a Pane e coltello. Cinque racconti di paese (sempre Armando Dadò Editore, 1975), con testi dello stesso Bianconi, di Giovanni Bonalumi, Plinio Martini, Giorgio e Giovanni Orelli.
Probabilmente i lavori che Flammer dedicò alle trasformazioni del paesaggio ticinese – che del Cantone intaccavano aspetti identitari ben più profondi – sono i più noti. Pur tuttavia, in un documentario della SRG SSR (allora idée suisse) che il regista Mohammed Soudani gli dedicò nel 2004, intervistato, spiega: “Ai tempi mi attirava il reportage, ma oggi non più: è ripetitivo, diventa calligrafia. A me interessa più la procedura che il soggetto”.
In effetti, un secondo aspetto essenziale del lunghissimo percorso artistico di Flammer è il suo interesse per la sperimentazione, per gli aspetti tecnici (fisici e ottici) della fotografia e della stampa fotografica, che conosceva dal punto di vista teorico, padroneggiava sul campo e sperimentava continuamente portandolo ad opere sempre più vicine a una forma d’arte in sé, ormai lontana dalla rappresentazione documentaristica pura e semplice: gli scatti diventano metafore, sineddoche, metonimie. “Mi interessa sperimentare” aveva dichiarato in quello stesso documentario “non però uno sperimentalismo fine a se stesso”. Sul farsi largo del digitale: “Non penso mai né al digitale né al PC né al fax. Sono allergico alla tecnica”. E, precisando il concetto nella sua ultima, recente intervista rilasciata a Giovanni Medolago per “Azione” :“Al digitale sinora ho rinunciato perché troppo attirato dai contrasti di luci e ombre che solo il bianco e nero può darti”.
Fotografare significa letteralmente (de)scrivere con la luce: anche in questo fedele al suo essere curioso e aperto, Flammer si è interessato a nuove forme e nuove applicazioni della luce, quella delle radiografie e delle risonanze magnetiche. Lo stesso aveva fatto anche Thomas Mann durante il soggiorno nel sanatorio di Davos – che gli avrebbe ispirato La montagna incantata – dove nel 1912 si era recato a trovare la moglie, Katia e dove egli stesso proprio da una radiografia venne a sapere di aver contratto il male (si veda Colm Toíbín, Il Mago, Einaudi 2023, appassionante biografia dello scrittore Premio Nobel 1929).
Con Alberto Flammer perdiamo lo sguardo educato e raffinato di un uomo che ha inciso sulla cultura fotografica del nostro tempo, ma anche sulla consapevolezza dello spettatore. Fotografo antropologico e civile, Alberto ha documentato i mutamenti spingendosi oltre l’illustrazione fine a se stessa. Non ha ceduto all’oleografia, alle sirene dell’estetismo e della gradevolezza tranquillizzante (la serie Imbalsamati e resti, del 1993-1995, è addirittura urtante). In migliaia di scatti, molti davvero memorabili, ha raccontato – in modo mai banale e sino all’ultimo – la trasformazione e i suoi rischi.
Nell’immagine: Alberto Flammer
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