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Donald Trump fa poker. Quarta imputazione in soli cinque mesi. La parola chiave è sempre “conspiracy”. Cospirazione. Con un’aggiunta: “criminale”. Stavolta in compagnia di possibili 18 complici. Quelli che fra i suoi collaboratori e legali, in base a quest’ultima inchiesta brigarono illegalmente nel 2020: dandosi da fare per accontentare il boss, e impedire al legittimo eletto Joe Biden di entrare da presidente alla Casa Bianca. Quella della notte scorsa, dovrebbe essere anche l’ultima accusa. Che del resto anche l’ex inquilino del numero civico 1600 in Pennsylvania Avenue, Washington, sapeva essere ineluttabile. Anzi, ne aveva fatto con anticipo una decisiva bandiera: “Ancora un’accusa, e vincerò le prossime elezioni”, quelle del 2024. Dunque non solo le primarie repubblicane, come confermano i numeri di tutti i sondaggisti nazionali, visto che il vittimismo è l’arma letale di un candidato che di nuovo si impone alla dirigenza dell’Old Grand Party, partito con enormi responsabilità storiche, e a irrisori competitor interni che dopo averlo osannato e difeso a lungo diventano irricevibili e inverosimili nel momento in cui vorrebbero togliergli lo scettro dell’ “alt-right” americana. 

Quella “destra alternativa”, colata del micidiale mix fatto di iper-conservatori, tea party, cospirazionisti, complottisti, razzisti, prima-nostristi, nonché elettori eredi veri o presunti dei waps, “bianchi-anglosassoni-protestanti”, terrorizzati dall’ineludibile prospettiva di diventare minoranza nella casa madre dell’impero statunitense. Sono soprattutto questi ultimi, e non i simil-vichinghi folcloristici (anche se pericolosi) che occuparono le sale del Congresso a Capitol Hill nel giorno dell’Epifania 2021, a fare la differenza. 

Si vedrà se il “poker” sortirà effetti sul quadro delle previsioni attuali, se incrementerà o meno il primato sulla carta del “tycoon” (sempiterno indebitato), se qualche elettore capirà la gravità dei fatti e l’impresentabilità democratica del personaggio che ha incuneato ulteriori, profonde, maligne fratture nel tessuto della nazione che si vuole guida del “mondo libero”. Stavolta, la sostanza del delitto è documentata: soprattutto nella telefonata (registrata e agli atti) con cui l’esagitato e rabbioso sconfitto ordinava (per fortuna inascoltato) al segretario di stato repubblicano della Georgia, Brad Raffensperger, di trovargli le 11.700 schede necessarie per capovolgere a suo favore l’esito del voto in quello Stato-chiave. Basterà per mettere alle strette l’uomo di tutti gli inganni, che usa (dibattito in corso) gran parte dei suoi fondi elettorali per pagarsi gli avvocati? 

Per nulla sicuro. Anzi improbabile che basti. E l’ipotesi di un Trump che possa poi candidarsi anche da detenuto, grazie a un paradossale “buco” della legge vigente, sarebbe soltanto l’ultimo non definitivo capitolo di un corpo-a-corpo, di una rissa, che rispecchia perfettamente la malattia istituzionale-politica-sociale della prima (ancora) potenza economico-militare del pianeta. Catalogo di faglie domestiche impressionante per quantità e qualità. Che, per l’essenziale, è stato così riassunto: “campagna/metropoli; nativisti/multiculturalisti; credenti/atei-o-agnostici; bianchi/neri o variamente colorati; armi per tutti/soltanto per autorizzati; aborto vietato/libero; tasse lasche (nulle)/incisive; classe media impoverita/immigrati”. Sullo sfondo di demografie divergenti: nel Sud trumpista crescono in massa i giovani, nel Nord-Est del venerando establishment liberal proliferano riserve di anziani. E via elencando, fra chiusure, rancori identitari, negazione della realtà. Come nell’esemplare storia che ci viene dalla Carolina del Nord, villaggio di New Bern (ma c’entrerà qualcosa con l’immigrazione dalle terre elvetiche?) : dove una netta minoranza di cittadini bianchi abituata da sempre a scegliere il sindaco senza nemmeno andare alle urne, da un paio di anni impedisce con tutti i mezzi di aprire le porte del Comune a un sindaco di colore, stra-eletto dalla soverchiante maggioranza degli abitanti neri. 

Un arcipelago di fratture e problemi che certo ha origini secolari e mai definitivamente risolte, ma che il combustibile infiammabile distribuito a piene mani dalla presidenza Trump ha fatto riemergere. Prepotentemente, forse irrimediabilmente sul breve periodo. Come conferma, acuendone le contrapposizioni, proprio l’attuale tetragono sostegno che gli garantisce una parte rilevante di elettorato, pronto ad avallare qualsiasi malversazione e nefandezza (per esempio gli ostacoli inventati per complicare e impedire il voto afro-asiatico) pur di rigarantirsi un primato comunque illusorio.

 Questo c’è sullo sfondo di una incredibile vicenda giudiziaria. Esiti, anche politici, non pienamente pronosticabili. Avremo, proseguendo così le cose, il duello fra i due candidati più anziani nella storia delle presidenziali Usa, lo scenario peggiore per la maggioranza degli americani. Con Biden che – pur avendo varato miliardi e miliardi per l’occupazione e il rilancio economico-industriale-infrastrutturale del paese – rischia di essere il principale nemico di sé stesso. Segnali di senilità galoppante, e problemi famigliari, ma non solo: c’è l’ancora insidiosa inflazione, c’è la guerra in Ucraina (che pesa comunque solo per il 2 per cento sul budget del Pentagono), c’è stata la disastrosa ritirata dall’Afghanistan.  “Attento”, lo ha recentemente ammonito il suo ex capo Barak Obama. La partita non è affatto vinta in partenza.

Nell’immagine: il paradosso del presidente carcerato 






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