Imane, l’essere umano trasformato in mostro
Sirene carnivore, Furie che dilaniano uomini, Meduse che pietrificano. Gli antichi miti ricompaiono negli incubi di chi non vuole la libertà (neanche di genere)
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Sirene carnivore, Furie che dilaniano uomini, Meduse che pietrificano. Gli antichi miti ricompaiono negli incubi di chi non vuole la libertà (neanche di genere)
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Sirene carnivore, Furie che dilaniano uomini, Meduse che pietrificano. Gli antichi miti ricompaiono negli incubi di chi non vuole la libertà (neanche di genere)
L’aspetto che più colpisce, e più inquieta, del dibattito sul caso Carini-Khelif è la metodica, meticolosa, spietata costruzione da parte prima degli organi sportivi, poi dei media, poi dei commentatori tutti della rete del concetto di mostro, con riferimento a Khelif. Un mostro, per definizione, è un essere con caratteristiche diverse dalla norma e, in quanto tale, generatore di stupore e paura. I tratti principali del mostro sono l’abnormità e l’ibrido: e nella narrazione che in queste ore viene fatta di Khelif, lei li racchiude entrambi. Si specifica che la sua forza è abnorme, che il suo corpo non è femminile. Viene mostrata in immagini dai tratti del volto duri, in forte contrapposizione con le sue foto da bambina, quando era normale, quando era conforme.
Perché questa costruzione? A cosa conduce? Credo ci siano almeno tre ragionamenti da fare.
Il primo. La funzione sociale del mostro è da sempre quella di riflettere le paure e le ansie della società e, d’altro canto, di rassicurarci a proposito della nostra normalità. Frankenstein è diventato uno dei più indissolubili miti della letteratura perché affonda le sue radici nelle paure umane: nacque da un incubo di Mary Shelley, e fu espressione della paura al tempo diffusa per lo sviluppo tecnologico. Khelif incarna una paura fortissima, e da qui l’esasperazione nella narrazione della sua mostruosità. È la paura della complessità. Il suo corpo esula dalla norma: e in una società che sempre più predilige le forme di espressione di pensiero basate sulla banalizzazione, lei è un esempio negativo, disforico, deviante. La nostra società gratifica il normale, colui che obbedisce alle sue norme, mentre nei confronti dell’anormalità nutre profonda diffidenza, quanto non aperto odio. Khelif ci spaventa. Per questo va accuratamente presentata ed esibita come mostro.
La seconda riflessione riguarda, necessariamente, la questione di genere. Khelif è, innegabilmente, una donna. Ma una donna che, per alcune caratteristiche, esula dai classici canoni della femminilità. E anche questo spaventa. C’è un saggio molto interessante della sociologa femminista americana Jude Ellison Sady Doyle, «Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne», dove l’assunto è che la mostruosità femminile esiste da sempre ed è una chiave di lettura dell’umanità. Si insinua in ogni mito, dal più noto al meno conosciuto: Sirene carnivore, Furie che dilaniano uomini, Meduse che pietrificano. Queste figure rappresentano, come ogni mostro, tutto ciò che viene ritenuto terrificante. In particolare, tutto ciò che gli uomini trovano minaccioso nelle donne, che sia bellezza, intelligenza, rabbia o potere. Khelif appare minacciosa poiché incarna il mito della potenza fisica. E destabilizza la nostra società patriarcale, poiché se la sua diversità diventasse norma scardinerebbe completamente gli equilibri e i rapporti su cui da sempre si basa la società occidentale.
La terza riflessione, la più importante. Qualunque opinione possiamo avere su questa vicenda, non dovremmo mai perdere di vista un elemento fondamentale. Khelif è, prima di tutto, e oltre ogni altra considerazione politica, sportiva, sociale e di genere, un essere umano. Dimenticarsene per opportunità politica (in primis), per semplificazione, per paura significa porsi al livello dei freak show dove società molto meno evolute della nostra strumentalizzavano, ridicolizzavano, denigravano persone con caratteri sessuali secondari tipici del sesso opposto per impressionare gli spettatori. Khelif è un essere umano e noi ce ne stiamo dimenticando, ma disumanizzare lei significa in primis disumanizzare noi stessi, perché non rispettare la dignità personale e la dimensione morale di un nostro simile significa rinunciare alla nostra anima e alla nostra dignità di esseri pensanti.
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