Può una rappresaglia militare essere al contempo il segnale di una de-escalation del conflitto? In altre parole, può starci un contrattacco moderato per lanciare un chiaro messaggio di voler in realtà abbassare la tensione, invitando alla reciprocità? Sì, può. E lo conferma la ‘rispostina’ bellica con cui nella notte Israele ha reagito al lancio (in sostanza relativamente inoffensivo) di centinaia di droni e missili iraniani per la prima volta diretti contro il suo territorio, esattamente una settimana fa. Questo, naturalmente, con diversi “se”: se poche ore fa non s’è trattato soltanto di un preambolo; se “Tsahal”, l’esercito israeliano, non ha in serbo una futura spirale di offensive, e altri importanti bersagli pro-iraniani (dall’Irak allo Yemen) non diventeranno bersaglio di ‘operazioni mirate’ come quella che, con l’eliminazione del generale dei pasdaran Sayyed Razi Musani, eliminato a Damasco con mira chirurgica, ad inizio aprile aveva innescato la nuova minacciosa spirale.
Venisse confermato nei fatti che la replica agli ayatollah si fermerà all’azione delle ultime ore, sarà evidente, se già non lo è, che Benjamin Netanyahu e i suoi alleati nazional-religiosi di estrema destra stavolta hanno deciso di ascoltare il “consigliere americano”, a cui avevano finora opposto più “nyet” che accettazione. Joe Biden e Antony Blinken (segretario di Stato, e “consigliori” in capo del presidente), impegnati a gettare acqua sul fuoco di un possibile grande incendio in tutta la regione, devono aver giocato duro. Poteva non bastare l’avvertimento dell’astensione Usa al Consiglio di sicurezza che per la prima volta ha consentito la risoluzione in favore del cessate il fuoco immediato; devono dunque aver ammonito e ricordato a “Bibi” che Israele è tributario dell’aiuto economico e soprattutto militare statunitensi.
Un rubinetto che lo Stato ebraico non può permettersi che venga chiuso. Sul piano politico, poi, il governo di Tel Aviv è stato convinto del fatto che, con la prima offensiva iraniana contro il proprio territorio, aveva riacquisito almeno in parte una rispettabilità internazionale scossa dai massacri a Gaza, un margine di azione diplomatica imprevista, una solidarietà concreta (come nel caso della Giordania) o palese (in particolare dell’Arabia Saudita) che sarebbe stata fortemente ridimensionata o cancellata da una contro-contro-mossa troppo devastante.
Così, aviazione e missili israeliani hanno colpito bersagli iraniani ma mirati, e con moderazione: un bombardamento vicino alla città di Isfahan, un altro non troppo lontano dai centri di sperimentazione atomica (qui il monito statunitense di non colpire era stato esplicito, come quello dell’Agenzia Internazionale dell’energia atomica), e ancora contro una base dei pasdaran (semi-deserta) in Siria. Tanto che i voli all’aeroporto civile di Teheran erano già ripresi in mattinata, come in una giornata normale.
Insomma, in termini militari, proprio il minimo sindacale per uno Stato ebraico i cui dirigenti hanno invece costantemente accarezzato e prospettato una guerra preventiva contro la teocrazia che governa la Rivoluzione islamica fondata da Khomeini. Conferma di uno schema quasi concordato, e che l’ottimo Nello Scavo, inviato dell’ “Avvenire”, aveva illustrato, sulla base di fonte anonima israeliana, negli scorsi giorni: israeliani e iraniani che per il tramite della Casa Bianca si erano informati reciprocamente e preventivamente sulle loro mosse. Insomma, un concordato gioco delle parti. Se non proprio un teatrino, poco ci manca.
E Teheran? Cosa ha da guadagnare da una de-escalation, oltre naturalmente alla salvaguardia del suo territorio e della sua popolazione già da tempo in agitazione contro il potere religioso? Soprattutto un ritorno alla “normalità” che le ha consentito di essere regista – ma da lontano – di quel fronte sciita, o “mezza luna sciita”, che ha organizzato e attivato non solo in funzione anti-israeliana ma anche in funzione anti-sunnita: cioè contro la coalizione araba guidata dal Regno hashemita (protettore dei luoghi santi dell’Islam, e rappresentante della maggioranza della comunità musulmana).
Chiamiamola tregua. Tregua fragile. Basterebbe poco a far riprecipitare la situazione nel baratro. Una tregua che ha però una vittima. Il popolo palestinese di Gaza. Da cui è stato immediatamente tolto il faro dell’attenzione internazionale, mentre una colonna davvero “biblica” di profughi (circa un milione di persone) sta percorrendo la strada costiera della Striscia per spostarsi a Nord. E per mettersi al riparo dall’attacco israeliano contro Rafah, la città di “fine corsa” alla frontiera con l’Egitto, diventata un immenso campo di rifugiati, sospettato dall’esercito israeliano di essere anche l’ultimo rifugio di capi e miliziani di Hamas.
Washington ripeterà inutilmente, insieme alla comunità internazionale, che si tratterà di un supplemento di quella tragedia umanitaria che già conta oltre trentamila civili palestinesi massacrati, la strage dei bambini (quasi la metà delle vittime), la galoppante carestia, gli innumerevoli feriti e mutilati, e i corpi (pare diverse migliaia) che ancora si trovano sotto le macerie del 50 per cento di edifici sbriciolati sotto i colpi di Tsahal. Un prezzo inaccettabile. Inaccettabile anche se nessuno dimentica o banalizza l’attacco terroristico di Hamas e la tragedia del 7 ottobre, per crudeltà spietatezza e violenza di ogni genere.
Se la ricompensa per la ‘rispostina’ militare contro l’Iran sarà soltanto questa, soltanto l’accettazione dell’attacco a Rafah, e non l’occasione per aprire varchi di ragionevolezza lungo tutti i fronti contrapposti, allora il sanguinoso caos nel cuore del Medio Oriente ha ancora davanti a sé un lungo futuro.
Nell’immagine: l’attacco israeliano nei pressi di Esfahan