Rossocrociati, la vera lezione di una notte magica
La nazionale ha battuto la Francia campione del mondo; un’impresa sportiva che dice anche molto altro
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La nazionale ha battuto la Francia campione del mondo; un’impresa sportiva che dice anche molto altro
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Non bisogna essere tifosi o conoscitori di calcio per capirlo. Anzi, forse è anche meglio non esserlo. Questa è festa per tutti. In primis per loro, quelli in campo, che vincendo contro ogni pronostico sui campioni del mondo ci hanno offerto una notte magica. Come vincere una finale. E riscattarsi rispetto a certi avvelenati super-critici per la svogliata prestazione contro l’Italia. Quando furono bollati non solo o non semplicemente come giocatori in soggezione, disorientati, messi male in campo, più tutto quello che calcisticamente si poteva affermare; ma (da parte di molti, di troppi) vennero pure messi sulla gogna anche se non soprattutto per la scarsa vena patriottica, l’orgoglio nazionale inesistente, la mancanza di attaccamento alla casacca rossocrociata. Come a dire che – da atleti di origine balcanica allenatore compreso, o ispanica, o africana, o nord-africana, o comunque straniera – mica vorrai credere che si potessero spremere davvero per i nostri colori. Semplici mercenari, così rappresentati nel paese che i mercenari li inventò davvero.
Adesso lor “signori” sono serviti. Adesso, anche per i “primanostristi”, tutti quelli che hanno realizzato l’impresa sportiva di Bucarest insieme ai compagni svizzeri-svizzeri che più svizzeri non si può, sono diventati “epici, monumentali, strepitosi, autori di una pagina storica”. No, non bisogna essere tifosi o conoscitori di calcio per capire che anche questa mescolanza, questa integrazione, questa convivenza è Svizzera. Al di là dell’imprevisto, emozionante e straordinario successo sportivo, il campo ci dovrebbe regalare anche questa consapevolezza.
Proprio negli scorsi giorni un giornale titolava che “in questo torneo europeo, la vera partita è quella fra il sangue e il suolo”, per dire di quelle nazioni che anche su un rettangolo di gioco pensano di poter alzare bandiere e vessilli di purezza etnica, di segnare attraverso il continente calcistico un confine fra chi quella presunta e stolida purezza la difende, e chi no (“Ha vinto una nazionale africana, mica la Francia”, a suo tempo sbottò inviperito Le Pen padre). E che ad aprirci le porte dei quarti di finale sia stato proprio, dal dischetto, un errore (oltre alla ‘plastica’ risposta di Sommer) proprio di un fenomeno come Mbappé, figlio d’Africa e delle banlieue francesi, è soltanto la riprova che ieri sera in campo c’erano semplicemente degli uomini, con le loro umane debolezze, e con le loro felici caparbietà. Oltre che con le loro bandiere.
Quelle giuste, però. Perché per noi la partita vera non è, non deve essere, “fra il sangue e il suolo”. Ma quella, come nella quotidianità, che consiste soprattutto nel giocare insieme.
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