La carneficina sotto le macerie dell’ospedale Al-Ma’amadani, le centinaia di morti palestinesi nel bombardamento della struttura costruita all’inizio del secolo scorso per iniziativa di missionari cristiani – e diventata in questo giorni di massacri anche rifugio per chi non aveva i mezzi o la volontà di evacuare verso sud – non ci confrontano “unicamente” alla peggiore strage di civili nella infinita tragedia di Gaza. Certo, sarebbe importante conoscere chi abbia ragione nelle vicendevoli accuse: se gli israeliani, i quali assicurano che si tratta di un obsoleto ordigno di Hamas esploso subito dopo il lancio verso lo Stato ebraico; oppure la leadership jihadista, che sostiene la tesi dell’attacco premeditato, deliberato e chirurgico di Tsahal. Ma l’individuazione delle responsabilità non cambierebbe molto alle reazioni interne e internazionali. Soprattutto nel mondo islamico medio-orientale (dal Cairo ad Amman, dal Marocco all’Iran, dal Maghreb alla Cisgiordania sotto occupazione militare), compattamente già convinto che questa sia l’ennesima conferma dell’odio e della crudeltà di Israele verso la popolazione araba. Come i paesi occidentali, che per decenni hanno trascurato e derubricato la miccia del contrasto israelo-palestinese, anche le leadership arabe hanno del resto la coda di paglia. Si sono occasionalmente servite della tragedia palestinese in termini propagandistici, però senza mai inserirla nelle priorità della loro strategia politica.
Oggi la loro componente in dialogo con Gerusalemme teme la protesta di popoli ostili all’ipotesi di altri “paci fredde” – come quella inaugurata dal lontano intervento al parlamento israeliano del presidente egiziano Anwar El Sadat, che pagò con la vita –, e sono obbligati ad assecondarla. Così, Al-Ma’amadani diventa anche la grande pietra di inciampo su cui va a sbattere anche il tentativo statunitense di de-escalation del conflitto. Dopo la frenetica maratona del suo ministro degli esteri, il “pellegrino” Joe Biden è arrivato in Israele, raggiunto sul volo dell’Air Force One dalla definitiva conferma della cancellazione del vertice che ad Amman avrebbe per la prima volta riunito i presidenti di Stati Uniti, Giordania, Egitto e dell’Autorità palestinese. Uno smacco. Pesante e supplementare problema. Anche perché per il capo della Casa Bianca, costretto a dialogare solo con Israele – e che ha sposato la tesi israeliana dell’auto-bombardamento jihadista all’origine della strage dell’altra notte–, rafforzerà tra i paesi musulmani l’immagine di un’America che sta soltanto e sempre dalla parte dello Stato ebraico.
L’obiettivo statunitense, evitare l’allargamento dell’incendio, un conflitto regionale che potrebbe tracimare oltre i confini della Palestina storica. Sperando di convincere Benjamin “Bibi” Netanyahu, che, insieme ai suoi ministri oltranzisti e annessionisti, è ritenuto responsabile sia dell’incapacità del suo esercito di prevenire e reggere il raid terroristico del 7 ottobre, sia di avervi contribuito dislocando molti reparti militari a difesa dei coloni e degli insediamenti ebraici in vistoso aumento nella West Bank, sia di aver lacerato la società nazionale con la sua legge sulla magistratura da sottomettere al potere politico, anche per sottrarsi al tribunale e a una probabile condanna per atti di corruzione e abuso di potere. Nei suoi incontri, anche con la ristretta “cellula di guerra” che vede la cooptazione di un solo esponente dell’opposizione (quindi governo di unità nazionale claudicante) Biden insisterà per l’apertura di corridoi e soccorsi umanitari a Gaza, ma in particolare vorrà dal premier l’assicurazione che Israele rinuncia all’occupazione militare di Gaza, anche solo di media o breve durata: “Israele commetterebbe un grave errore”, ha già fatto sapere il presidente prima del suo arrivo in quella terra santa così poco santificata. Sul piano militare, entrare nella Striscia potrebbe diventare una trappola (in cui si gioca anche la vita dei 199 ostaggi ebrei); su quello politico configurerebbe un ulteriore motivo di proteste popolari arabe (con la massiccia crescente contestazione del presidente Abu Abbas in Cisgiordania), e un colpo probabilmente letale a quegli “Accordi di Abramo” con alcune monarchie del Golfo (più Marocco) a cui stava forse per associarsi anche l’Arabia Saudita, che ospita la Mecca, privilegio che ne consacra (insieme alla sua immensa ricchezza petrolifera) il ruolo di guida dell’ “umma”, la comunità sunnita, 2 miliardi di islamici nel mondo, che nel prossimo mezzo secolo sono statisticamente destinati a diventare la religione più diffusa sul pianeta. Il Regno Saudita, uno dei bersagli privilegiati di Hamas e del suo sponsor Teheran.
Finora Israele non è rimasta sorda (per Israele sono esclusi diktat) ai consigli della Casa bianca, e probabilmente anche di qualche esperto generale di Tsahal e dell’Aman (l’intelligence militare). Finora ha evitato di procedere “boots on the ground”, stivali a terra, nel gergo militare affrontare direttamente sul terreno il nemico. E, anche per tranquillizzare l’opinione pubblica preoccupata di eventuali cedimenti nel portare a termine la vendetta della ‘strage degli innocenti’, il ministro della difesa precisa: l’intervento dei fanti nel Nord e oltre Gaza City, “non è al momento l’unica opzione”. Basterà? E in che altro modo Israele può raggiungere l’obiettivo di stanare e sradicare Hamas nella piagata e sovraffollata Gaza, dove gli islamisti hanno costruito una serie di gallerie al riparo dai bombardamenti? Aumentando i raid aerei? Moltiplicando così il già agghiacciante bilancio delle vittime civili palestinesi (ad oggi 4.000 circa, e oltre 10.000 feriti)? Producendo ulteriori proteste del mondo arabo? E innescando la potenziale esplosione di una “Nuova Intifada”, la terza, in quel labirintico territorio in cui sono stati scientemente divisi e separati i Territori? Alimentando, inoltre, l’allarme dell’Europa, per il ritorno dei “lupi solitari”, radicalizzati nel nome dell’Isis, eterodiretti o semplicemente emuli delle stragi del recente passato, e che hanno di nuovo colpito in Francia e in Belgio.
Infine, come ipotizzare, e con chi, il successivo eventuale recupero del dialogo per sciogliere il drammatico dilemma dei “due diritti in conflitto”: quello dell’esistenza di Israele, che quel diritto lo ha ottenuto dalla comunità internazionale (votazione ONU del 1948); e quello del popolo palestinese (da non confondere con Hamas) che invece, fra errori della sua dirigenza e soprattutto della forza repressiva israeliana, lo attende inutilmente da oltre mezzo secolo?
Nell’immagine: l’esplosione all’ospedale di Gaza