L’amore e la guerra
Witali, Lidia e la piccola Tiffany: lui rimasto a Charchiw, moglie e figlia rifugiate a Lugano. Una storia di paura, sofferenza e, nonostante tutto, di speranza
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Witali, Lidia e la piccola Tiffany: lui rimasto a Charchiw, moglie e figlia rifugiate a Lugano. Una storia di paura, sofferenza e, nonostante tutto, di speranza
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Witali, Lidia e la piccola Tiffany: lui rimasto a Charchiw, moglie e figlia rifugiate a Lugano. Una storia di paura, sofferenza e, nonostante tutto, di speranza
Di Daniel Böhm, Charkiw- Andrea Spalinger, Lugano Neue Zürcher Zeitung
Traduzione di Gabriella Soldini
La mattina, quando Witali Sacharenko si sveglia, nell’appartamento è completamente buio. L’uomo, trentasettenne, tasta nell’oscurità alla ricerca del cellulare. La maggior parte delle volte ci sono già messaggi per lui. Una fotografia di sua moglie e di sua figlia. Witali clicca sull’immagine per confermare che ha ricevuto l’invio e per informarle che è ancora in vita.
Witali vive solo, alla periferia di Charkiw. Dopo Kiev, Charkiw è la città più popolosa dell’Ucraina e per mesi è stata oggetto di aspri combattimenti che per ora hanno visto gli Ucraini riuscire a respingere gli attacchi nemici. Tuttavia, ogni notte il suo quartiere viene colpito dai razzi. Per questa ragione Witali tiene chiuse tapparelle e tende per evitare che i vetri si frantumino in seguito alla pressione causata dalle esplosioni. Infatti, è già successo che le pallottole delle granate Shrapnel li abbiano sbriciolati. Ma è la solitudine a spaventarlo, non le tenebre e i bombardamenti.
La fuga nell’incertezza
La moglie Lidia e la figlia Tiffany, di cinque anni, vivono in Svizzera da oltre tre mesi. “Meglio così”, dice Witali quando lo incontriamo nel suo appartamento. “Anche se ogni giorno mi auguro che ritornino. Ma qui è pericoloso. È meglio che restino là, anche se mi si spezza il cuore.”
La sua famigliola l’ha vista per l’ultima volta il 12 marzo. “Mi sono congedato da loro alla frontiera rumena. Quando sono partite, ho pianto.” Sono fuggite da Charkiw poco prima che qui scoppiasse la guerra. “Vedevamo i soldati russi nelle strade davanti alla nostra casa che sparavano sugli Ucraini e ci siamo resi conto che dovevamo andarcene”, racconta Witali. Degli amici li hanno portati con sé a Kiev dove sono stati ospitati da conoscenti.
Poi Lidia e Tiffany sono scappate a Lugano dove vive una compagna di studi che ha offerto loro di ospitarle. Witali non ha potuto partire con loro. Agli uomini sotto i 60 anni è stato proibito di lasciare l’Ucraina. Ed è tornato a Charkiw. Da allora si sente l’uomo più solo sul pianeta.
Dopo un mese trascorso nell’abitazione dell’amica, Lidia e Tiffany sono state accolte in un ex convento nel centro di Lugano messo a disposizione per i rifugiati*. Un edificio del 17° secolo, con una chiesa che Lidia ama particolarmente. Qui, per la prima volta da mesi, lei riesce a dormire relativamente bene. Se non ci fosse la costante preoccupazione per il marito. “Ho talmente paura per lui che spesso mi sento male”, dice durante il colloquio sulle rive del lago.
Lidia sente che Witali non sta bene. Cerca di tenergli alto il morale. Tutti i giorni gli invia fotografie e video. Porta costantemente con sé il cellulare per fargli sapere come passa le sue giornate. Filma Tiffany che danza nel parco, sul lungolago, o il suo viso pasticciato di gelato al cioccolato. Il papà deve vedere che loro stanno bene. Chiama Witali ogni giorno e cerca di non parlare della guerra. Ma non è semplice.
“Siamo stati così ingenui”
Fino a qualche mese fa erano una famiglia privilegiata del ceto-medio. Conducevano una vita non molto differente da quella di molte famiglie svizzere. Witali aveva un lavoro d’ufficio ben remunerato, Lidia gestiva un elegante negozio di biancheria e costumi da bagno. Erano proprietari di due auto e di una nuova abitazione. La figlia prendeva lezioni di danza ed insieme facevano le vacanze all’estero.
Lo scorso dicembre erano stati a Sharm el-Sheikh, la nota località balneare egiziana. Già in quel periodo circolavano voci su un imminente attacco dei Russi. Tuttavia, Witali e Lidia non credevano – come tutti i loro conoscenti – che si sarebbe arrivati a tanto. “Avevamo una vita perfetta e siamo stati così ingenui”, esclama Lidia tristemente.
Ora vive con cinquanta altre donne, bambini e uomini anziani ucraini nell’ex-convento adattato per accogliere rifugiati. La sua stanza è minuscola, ci sta appena una branda, ma Lidia è contenta di avere una stanzetta tutta per sé e di non dover alloggiare in un dormitorio.
Non fa che ripetere quanto sia grata per essere stata accolta in Svizzera. “Le persone, qui a Lugano, sono incredibilmente gentili e generose”, racconta entusiasta. “Degli estranei ci hanno portato vestiti e giocattoli per Tiffany, una signora mi ha regalato il suo vecchio computer portatile, in un salone da parrucchiere mi hanno tagliato i capelli gratis. Noi siamo stranieri qui. Non erano tenuti ad aiutarci, tuttavia l’hanno fatto e lo fanno! Sono cose che fanno molto riflettere: al posto loro, mi sono chiesta spesso, saremmo stati anche noi così generosi?”
Per la donna, anch’essa trentasettenne, non è certo semplice adattarsi alla condizione di rifugiata di guerra. Per lei, fra l’altro, è un pesante declassamento sociale. “Sono stata sempre una persona autonoma e indipendente. Mi costa fatica dover dipendere dall’aiuto di altri. Mi vergogno”, aggiunge. Inoltre, non è semplice vivere dignitosamente in Svizzera. Poiché Lidia e Tiffany vivono in una struttura per rifugiati in cui ricevono anche i pasti, non hanno diritto a un sostegno finanziario dello Stato. Quando viaggiano con il bus o vogliono andare in piscina, devono provvedere a pagarsi il viaggio o l’ingresso e i prezzi in Svizzera per loro sono astronomici. A Lidia piacerebbe poter lavorare. Si è proposta come donna delle pulizie, commessa, babysitter, postina e giardiniera. Accetterebbe qualsiasi lavoro. Ma per ora non ha trovato niente perché, dovendosi occupare di Tiffany, le è possibile lavorare solo a metà tempo e inoltre ancora non parla italiano.
Fiabe per la figlia
Il suo orizzonte si è ristretto. La sua vita è dedicata quasi esclusivamente al benessere della figlia. La mattina porta Tiffany con il bus all’asilo, il pomeriggio va a riprenderla. Nel lasso di tempo che le rimane fino a cena intrattiene la piccola. Scende al lago e passeggia con lei lungo la riva fino alla fontana con il getto d’acqua o fino al parco giochi o fino alla piscina.
La bimba l’accompagna felice su un monopattino rosa che la mamma ha acquistato su Internet per pochi soldi. Sembra l’unica in famiglia ad essere abbastanza contenta della situazione attuale. Almeno così sembra.
“Per renderle le cose semplici le racconto delle favole”, spiega Lidia. “A Tiffany dico che siamo qui in vacanza, che suo padre sta bene, che la guerra è finita e che gli uomini cattivi sono rinchiusi in prigione. Lei sembra aver dimenticato i giorni traumatici passati a Charkiw”. Anche a sé stessa Lidia, all’inizio, ha raccontato favole: si diceva che sarebbe dovuta restare in Svizzera solo per un breve periodo. Ma ben presto si è resa conto che ci vorrà ancora molto tempo prima di poter ritornare.
Witali non può far altro che lavorare. Siede tutto il giorno davanti al computer portatile nell’abitazione vuota. È il rappresentante di una ditta che tratta materiale edilizio, può lavorare online e fortunatamente riceve ancora uno stipendio. Ma questa vita lo sta distruggendo. Ormai esce soltanto per fare la spesa.
Con la testa completamente rasata e una barba che gli circonda il mento, Witali ha l’aspetto di un monaco. E in fondo vive come un monaco, come in una certosa, solo. Ogni mattina medita e ascolta musica rilassante. “È come essere in prigione, si ha bisogno della routine e non ci si deve lasciar andare. Altrimenti è finita.” Pensa il meno possibile alla vita di prima o al futuro. Ma in un attimo la realtà riprende il sopravvento.
Dietro il centro residenziale, il fronte
Witali e la moglie hanno acquistato nel 2019 un’abitazione in un nuovo centro residenziale e vi hanno traslocato poco prima dell’inizio della guerra. “La posizione era ideale, ai margini della città, immersa nella natura”, dice Witali. Ma con la guerra questi pregi si sono rivelati uno svantaggio. Il fronte era ad appena sette chilometri di distanza. Nel boschetto dietro gli edifici si nascondevano i sabotatori russi. Il quartiere veniva costantemente colpito dai razzi.
“La maggior parte dei nuovi proprietari non hanno preso possesso delle loro abitazioni. Altri se ne sono andati subito. Attualmente non c’è quasi più nessuno qui”, dice Witali. Nei corridoi si trova ancora del materiale edilizio. Dentro e fuori regna il vuoto. Fra gli edifici cresce l’erba.
Witali si sente come Robinson Crusoe. “La mattina parlo con me stesso, mi chiedo come sto e cerco di immaginare come sarà la giornata.” Sarebbe in grado di sopportare persino l’incertezza se non ci fosse la nostalgia per sua moglie e sua figlia. “È decisamente la cosa peggiore.”
La forzata separazione tormenta anche Lidia. Ogni volta che a Lugano incontra per strada un bambino con i suoi genitori, potrebbe urlare per la disperazione. E quando il discorso cade su Witali i suoi occhi si riempiono di lacrime e fatica a riprendere il controllo. Lidia non vuole che Tiffany la veda piangere. “Cerco sempre di sorridere. Non deve vedere quanto nel mio intimo io sia triste. Spesso sono depressa. Mi sento così fragile e insicura. Se lo vogliono, gli Svizzeri ci possono rispedire a casa in ogni momento.”
“Witali è il mio grande amore” dice Lidia, e per la prima volta in questa giornata estiva i suoi occhi si illuminano. Si sono conosciuti la sera di San Silvestro del 2008 in una discoteca di Charkiw. Avevano entrambi 23 anni. È stato amore a prima vista. Sono andati ad abitare insieme a 400 chilometri a sud, a Zaporizhzhia, la città natale di Lidia. Nel 2016 si sono sposati e lo stesso anno è nata Tiffany.
Poco tempo dopo si sono trasferiti a Charkiw, la città natale di Witali. Già allora nel Donbass infuriava la guerra, ma la vita continuava. Andavano spesso al ristorante, nei parchi divertimento, nella natura. “Witali è un padre fantastico”, dice Lidia. Passava molto tempo con la figlia, avevano un rapporto profondo. “Ora Tiffany si sta staccando lentamente da lui. Le mancano i suoi abbracci, ma non vuole più parlare con lui al telefono. Ciò mi rattrista.”
Per Witali la quotidianità familiare è solo un ricordo lontano. Talvolta va nella stanza di Tiffany dove c’è una cesta con qualche giocattolo. Sulla parete una decorazione rosa, ma più niente ha a che fare con la sua vita attuale. “Tutto mi è estraneo, come se provenisse da un altro secolo”, dice mentre guarda sul cellulare le fotografie scattate durante le vacanze in Egitto.
Della vita precedente non esiste quasi più niente. La guerra non ha soltanto fatto a pezzi la loro vita, ma sta minacciando anche la loro esistenza. “Per comperare l’appartamento abbiamo dovuto fare debiti. A ognuna delle tre banche devo 10’000 euro. Non so proprio come potrò saldare i debiti”, dice Witali preoccupato. Per ora ho ottenuto delle dilazioni, ma non vengono sicuramente cancellati.
Non si vedono da più di tre mesi, Witali e Lidia. Lidia dice che la cosa più importante è che Witali sopravviva e che la guerra finisca. Non le fa paura la prospettiva di dover ripartire da zero, l’importante è che siano di nuovo insieme. Certo la vita non sarà mai più così spensierata e felice come prima. “Io non sono più la stessa, neppure lui. Tutto ciò cambia una persona per sempre.”
La paura di essere chiamato a combattere
“L’Ucraina deve assolutamente vincere questa guerra”, dice Witali. Lui, a suo tempo, era stato esentato dal servizio militare per motivi di salute. Ma Lidia teme fortemente che un giorno o l’altro venga mobilitato. Più volte ha dovuto convincerlo a non annunciarsi volontario. Sua figlia non deve crescere senza un padre. Ma non è importante difendere la patria? “In Ucraina muoiono ogni giorno così tante persone. Non ne vale la pena. In ogni modo non potremo di sicuro fermare i Russi con i mitra. C’è bisogno di un aiuto militare più consistente e di più pressione su Putin”, risponde con decisione Lidia.
Witali cerca ora in tutti i modi di potersi recare all’estero. Ma è difficile a causa della proibizione per gli uomini di espatriare. Sta pensando alla possibilità di lavorare come autista di camion. “Per gli autisti di camion ci sono eccezioni, se fanno trasporti umanitari. Allora potrei almeno per un paio di giorni valicare la frontiera e abbracciare la mia famiglia. Ho già il permesso di guida.”
*
Il Convento dei Padri Cappuccini di Lugano, fondato nel XVII secolo, è stato chiuso ufficialmente nel 2014 e per alcuni anni si è cercata una nuova destinazione che potesse tenere viva quest’oasi di pace e di verde in prossimità del centro cittadino. Sin dal 1980 una biblioteca pubblica gestita da un’Associazione aveva contribuito a rendere accessibile gli spazi (disegnati dall’architetto Mario Botta) a tutta la popolazione; una realtà che nel 2021 ha rischiato di divenire vittima della speculazione edilizia e che è stata salvata grazie al provvidenziale intervento della neocostituita Fondazione Convento Salita dei Frati di Lugano. In attesa che gli spazi conventuali adiacenti alla biblioteca possano essere trasformati in un nuovo centro sociale e culturale, attualmente il complesso ospita una cinquantina di rifugiati ucraini gestiti dalla Protezione Civile di Lugano
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