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Di Farah Nayeri, Linkiesta.it

Come sostengono il Premio Nobel Joseph Stiglitz e il deputato francese Hervé Berville, la pandemia ha alterato l’economia globale e ha messo in dubbio il modello economico che è stato applicato finora

La pandemia di coronavirus ha aggravato la differenza tra chi ha e chi non ha e ha posto severamente in dubbio il capitalismo: questa è la conclusione alla quale sono arrivati Joseph Stiglitz e Hervé Berville, due economisti che hanno parlato quest’anno all’Athens Democracy Forum, un evento annuale che si tiene in collaborazione con il New York Times.

Stiglitz – vincitore nel 2001 del Premio Nobel per l’Economia, ex chief economist presso la Banca mondiale e professore alla Columbia University – ha detto in un’intervista che ha preceduto la conferenza che il settore privato si è dimostrato incapace di rispondere da solo alla sfida sanitaria globale e che i governi hanno un grande ruolo da giocare.

Berville – deputato francese del partito centrista guidato dal presidente Emmanuel Macron e autore nel 2018 di un report sul modo di riformare le politiche di aiuto allo sviluppo della Francia – ha detto in un’altra conversazione che i Paesi ricchi hanno speso miliardi per sé e hanno fatto poco per aiutare i Paesi che ne avevano più bisogno.

Questa intervista a Joseph Stiglitz è stata editata e condensata. 

Professor Stiglitz, lei pensa che la pandemia lastricherà la strada verso un capitalismo con più consapevolezza sociale?
Sì, decisamente, e per diversi motivi. Abbiamo visto che, come nella crisi finanziaria del 2008, i mercati non sono così “buoni” come pensavamo. Non sono stati resilienti. Non hanno saputo fornire mascherine per il viso, equipaggiamenti protettivi e prodotti complicati di questo tipo. Abbiamo avuto interruzioni dal lato dell’offerta. La visione secondo cui i mercati possono risolvere tutti i problemi si è indebolita. Riconosciamo che in questo momento di crisi ci rivolgiamo ai governi per aiutarci ad affrontare la macroeconomia e le fragilità economiche ma anche a proteggerci in termini di salute pubblica. E non ci rivolgeremo al settore privato neanche in occasione della prossima pandemia. Quello di cui abbiamo veramente bisogno è un settore pubblico più forte.

In che modo il capitalismo, come sistema e come modello di vita, è stato messo in dubbio?
La pandemia ha messo in piena luce alcuni degli aspetti crudi del nostro capitalismo: le disuguaglianze. Ha mostrato la forza del settore privato che è stato capace di produrre i vaccini così rapidamente, ma anche le debolezze. Le aziende non sono ancora capaci di produrre abbastanza vaccini per proteggere il resto del mondo e saremo colpiti da un’altra ondata, potenzialmente proveniente da qualche Paese in via di sviluppo dove il virus non è stato posto sotto controllo.

Lei sottolinea, nei suoi libri e nei suoi discorsi, che i mercati non prestano attenzione alla giustizia sociale e alla distribuzione del reddito. Eppure il capitalismo è costruito sulla nozione di liberi mercati. Come possiamo modificare le cose?

Attraverso la politica e attraverso un cambio nelle norme sociali. Mi lasci fare un paio di esempi. Questo tipo di consapevolezza ha condotto una grande maggioranza delle persone che partecipano alla Business Roundtable (un’associazione di chief executives delle principali aziende americane, ndr) a sostenere uno spostamento dal capitalismo degli azionisti a un capitalismo degli stakeholder. Anche se non tutte queste persone ci credono veramente nel profondo del loro cuore, questo cambiamento, nel modo in cui lo immaginano, avrà effetti a lungo termine. Sono stato a incontri in cui l’amministratore delegato di una grande azienda ha detto: «Non mi ero reso conto quanto male pagassimo i nostri lavoratori e che una larga parte di loro non ricevesse un salario che gli permettesse di vivere. E, quando l’ho capito, ho cambiato le cose». Prima il suo scrupolo di coscienza era rendere minimi i costi del lavoro. Ora il suo scrupolo di coscienza è più del tipo: «Che modello di impresa vogliamo avere?».

Che tipo di misure dovrebbero introdurre i governi?
Il primo impegno dev’essere accertarsi che chiunque possa lavorare e abbia la volontà di farlo ottenga un lavoro. Questo è il primo dei nostri fallimenti e dobbiamo correggerlo. Nel corso dei prossimi trent’anni abbiamo un’enorme quantità di lavoro da fare per operare la transizione verde, per assicurarci che ciascuno riceva un’istruzione adeguata, che ci siano infrastrutture decenti e così via.

Che cosa ne pensa di un reddito basico universale?
Al di là di tutte le altre cose che dobbiamo fare, credo che dobbiamo comunque concentrarci sul modo in cui spendiamo soldi e su quali possano essere le nostre erogazioni in denaro a sostegno di chi non può lavorare ed è quindi più bisognoso di tutti. Se avessimo più fondi sarebbe differente, ma ora non vedo questa possibilità. Abbiamo molte altre necessità.

Questa intervista a Hervé Berville è stata editata e condensata. 

In che modo la pandemia ha allargato il gap tra l’Occidente e le economie emergenti?
La pandemia ha rivelato a un grado parossistico le disuguaglianze. Abbiamo visto che i Paesi dell’Europa e del Nord America sono stati capaci di fare miliardi e miliardi di debito per introdurre ampi recovery plan. Eppure siamo stati incapaci di trovare soluzioni per i Paesi con economie emergenti. Abbiamo dovuto imporre una moratoria sul loro debito ed essi non hanno avuto accesso ai mercati finanziari – quando erano i più bisognosi di aiuto. Solo il 2 per cento degli abitanti di quei Paesi sono vaccinati, mentre l’Europa ha tassi di vaccinazione dell’80 per cento e discutiamo sulla distribuzione della terza dose. Il sistema capitalista oggi non sta correggendo i disequilibri e, anzi, li sta aumentando.

In realtà, però, la globalizzazione e i liberi mercati hanno consentito di ridurre la povertà nel mondo a livelli che non erano mai stati così bassi.
È vero che milioni, se non miliardi, di persone sono state sottratte alla povertà. La domanda ora è come ridurre e addirittura eliminare le residue sacche di povertà. È inaccettabile che nello stesso momento in cui i miliardari hanno raggiunto livelli di ricchezza senza precedenti, ci debbano essere ancora persone senza accesso al cibo e a un’assistenza sanitaria minima. Non è sufficiente rendere disponibili in quei Paesi beni e servizi: devono anche essere resi accessibili. Se un centro di assistenza sanitaria fa pagare le prestazioni massimo un euro, c’è comunque una disuguaglianza di accesso qualora le persone non possano raggiungere quel centro di assistenza sanitaria. Dobbiamo quindi lavorare sulle infrastrutture e sulla mobilità sociale e geografica.

In che modo il capitalismo ha contribuito alle profonde disuguaglianze tra l’Occidente e il resto del mondo?
C’è stato un consistente ridimensionamento del ruolo dei governi e dei servizi pubblici e una spinta verso tassazioni minime. Una corsa verso il basso. Se imponevano una tassazione più bassa, i Paesi erano visti come più virtuosi e più attraenti per le multinazionali e per gli investitori stranieri. Ora ci rendiamo conto che questo è stato un errore politico ed economico e che le vittime di tutto ciò sono state le popolazioni più povere. C’è stato un investimento insufficiente nel capitale umano. E non abbiamo prestato abbastanza attenzione neppure alle conseguenze di ciò che stavamo facendo al “capitale naturale”.

Abbiamo dato per scontato che l’iniezione di capitale finanziario avrebbe aumentato il capitale umano e quello naturale di un Paese. E quindi c’è stata una cronica insufficienza degli investimenti in formazione, istruzione, sanità e protezione della biodiversità – da parte dei governi, ma anche da parte delle istituzioni internazionali. L’errore nelle strategie di sviluppo economico è stato dare per scontata la “taglia unica” e cioè che la stessa formula avrebbe funzionato allo stesso modo in Paesi completamente diversi.

Non possiamo rispondere alle sfide comuni globali – la questione dell’istruzione, quella sanitaria, quella del terrorismo – senza un’azione comune che coinvolga tutti i Paesi del mondo. Non possiamo affrontare temi come la povertà e la disuguaglianza tutti da soli nel nostro angolino. Così come non è possibile il socialismo in un solo Paese, non è possibile neppure il capitalismo riformato in un solo Paese. Nel 1945 abbiamo creato il Fondo monetario internazionale. Mi piacerebbe vedere la creazione di un Fondo di coesione internazionale.

Dobbiamo mettere il tema della solidarietà al centro della nostra economia di mercato.

©️2021 THE NEW YORK TIMES COMPANY E FARAH NAYERI






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