Il progetto di mandato negoziale con l’UE pubblicato dal Consiglio federale alla fine del 2023 è stato accettato come base per le future discussioni da un gran numero di organi consultati. Sembra promettente, ma se vogliamo andare fino in fondo dobbiamo essere chiari su una cosa: la natura ambigua di qualsiasi legame. I legami possono essere fonte di conflitto: da qui la necessità di stabilire limiti chiari e rassicuranti, e di rispondere alle esigenze della popolazione.
L’ambiguità delle relazioni
Come sottolinea il politologo britannico Mark Leonard nel suo recente libro, edito in italiano dalla Bocconi University Press con il titolo “L’era della non pace”, i legami e le connessioni offrono l’opportunità di controllare e nuocere. Questa semplice osservazione fornisce una chiave di lettura della nostra epoca, che con i suoi numerosi conflitti e tensioni può essere vista come contraddistinta da un’assenza di pace. L’idea è tanto più interessante in quanto viene difesa da chi ha scritto un libro, che lui stesso ha definito una lettera d’amore, intitolato “Perché l’Europa dominerà il XXI secolo”. È dunque importante rilevarne la portata.
E non è nemmeno così difficile. Le connessioni instaurate dalla finanza fanno sì che le sue crisi si diffondano a livello globale, analogamente ai virus come il Covid-19 che sfruttano la nostra mobilità. Le sanzioni economiche possono funzionare solo perché c’è il commercio. Internet rende possibili gli attacchi informatici e la polarizzazione delle opinioni attraverso i social network. Ricordiamoci che il nome “Ucraina” significa qualcosa come “vicino al limite”. Il tema è generale: si pensi alle relazioni tra città e campagna che danno origine a tensioni sulle questioni ecologiche, o alle relazioni intergenerazionali che attualmente danno origine a dibattiti sull’AVS. Ma restiamo al livello degli Stati.
Disinnescare i legami
L’esistenza delle frontiere non è sufficiente per vivere in pace; dobbiamo essere d’accordo da entrambe le parti sul loro ruolo di barriere, per disinnescare il potenziale dannoso delle connessioni. Per comprendere appieno la natura delle connessioni tra gli Stati, è importante averne un’idea che rifletta la realtà, perché i territori, i popoli e i poteri degli Stati sono cambiati notevolmente da quando si sono imposti come la forma dominante dell’organizzazione politica.
Innanzitutto, i limiti territoriali degli Stati non sono naturali, ma sono sempre il risultato di accordi. La Svizzera, ad esempio, ha numerose enclavi a livello comunale e cantonale, e persino due enclavi internazionali: una tedesca e una italiana. In secondo luogo, è molto raro che un popolo tragga ancora le proprie radici interamente dal suo territorio; è più comune che sia vincolato da una Costituzione e che abbia subìto un incrocio più o meno marcato. Inoltre, gli Stati hanno dovuto cedere una buona fetta della loro sovranità: all’interno, devono fare i conti con numerosi controlli e contrappesi, come i partiti politici e i sindacati, e all’esterno hanno dovuto abdicare all’esercizio di alcune delle loro funzioni a organismi sovranazionali come le Nazioni Unite, di cui devono rispettare la Carta. La Svizzera fa parte dell’area Schengen, all’interno della quale i controlli alle frontiere dovrebbero essere sospesi, e partecipa agli accordi di Dublino sull’asilo.
Gli Stati devono inoltre coesistere con altri attori sulla scena mondiale che non sono governati da costituzioni o governi: delle 100 organizzazioni più grandi del mondo, solo la metà sono Stati e l’altra metà sono imprese multinazionali; ci sono attualmente all’incirca 300 organizzazioni intergovernative e oltre 8.000 organizzazioni internazionali non governative. Si pensi all’importanza di alcune agenzie delle Nazioni Unite, o a quella del FMI, dell’OMS, dell’IPCC, del CICR, di Amnesty International, del WWF o di Greenpeace.
Questa evoluzione degli Stati e della loro interdipendenza è generale e fa parte del movimento della globalizzazione. Non è possibile fermarla e deve essere accompagnata dalla giusta considerazione dei rischi che comporta. Ogni apertura deve essere attentamente ponderata, e gli Stati si controllano a vicenda attraverso accordi. Per esempio, il Sudafrica può portare Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia (CIG) e il Tribunale penale federale può attualmente processare un ex ministro del Gambia accusato di crimini contro l’umanità. Da parte sua, il Gambia ha accusato il Myanmar di genocidio dei Rohingya davanti alla Corte internazionale di giustizia, mentre al Consiglio federale è stato chiesto di condannare come genocidio culturale il programma “Kinder der Landstrasse”, che tra il 1926 e il 1972 ha comportato il rapimento da parte di Pro Juventute di circa 2000 bambini dai loro genitori nomadi Jenisch e Sinti.
Limiti chiari e rassicuranti
Anche se ogni parte sarà vincolata dall’accordo che verrà raggiunto con l’UE, esso non sarà simmetrico come gli accordi che hanno portato alla creazione della CIG. Un motivo in più per essere vigili. Il nuovo mandato negoziale con l’UE tiene conto delle obiezioni sollevate durante le discussioni sull’accordo quadro abbandonato nel 2021. Tuttavia, comporta inevitabilmente un trasferimento di poteri in alcuni settori. Per giudicare se è opportuno procedere, dobbiamo quindi spiegare il nostro interesse a stringere legami più stretti e valutare correttamente l’impatto dei cambiamenti prevedibili. Vediamo due esempi. Uno proviene dal mondo dell’istruzione e l’altro dal settore legislativo. In entrambi i casi, ricordiamoci da dove partiamo per poterne cogliere appieno le conseguenze.
Due esempi
La Svizzera partecipa, insieme a una cinquantina di altri Paesi, al processo di avvicinamento dei sistemi di istruzione superiore, noto come Processo di Bologna. L’UE non ha competenze nel campo dell’istruzione superiore, ma in base al principio di sussidiarietà, la Commissione europea può proporre programmi per sostenere i suoi membri nei loro sforzi di avvicinamento dei sistemi di istruzione superiore. È quanto sta facendo con il programma di mobilità e cooperazione Erasmus+, che copre tutti i livelli di istruzione. Pur non essendo membro dell’UE, la Svizzera poteva partecipare a questo programma, ma ha deciso di ritirarsi già prima del voto del 2014, ritenendo la partecipazione troppo onerosa. La Svizzera potrà partecipare di nuovo al programma solo se verrà raggiunto un accordo istituzionale. La sola partecipazione a questo programma giustificherebbe un tale accordo! La mobilità e la cooperazione dei giovani sono la migliore garanzia per evitare conseguenze troppo dannose di un eventuale uso conflittuale dell’accordo. Il legami personali creati con la mobilità e la cooperazione serviranno a disinnescare i nuovi legami istituzionali stabiliti.
Passiamo alla legislazione. La Svizzera è parte dello Statuto della CIG e, come detto, partecipa alla Corte penale internazionale. Inoltre, il nostro diritto è già altamente eurocompatibile. In particolare, con l’adesione agli accordi di Schengen e Dublino, stiamo già adottando in modo dinamico il diritto dell’UE in diversi settori. Inoltre, un recente studio dell’Università di Zurigo ha stabilito che non sono le iniziative popolari o il Parlamento a dare il ritmo a livello legislativo, ma piuttosto l’amministrazione federale. Pertanto, con l’adozione dinamica della legge, il ruolo del Parlamento e delle lobby nelle questioni legislative cambierebbe solo in modo relativo. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che i diritti umani, il diritto di voto delle donne, e la considerazione dei bisogni delle persone disabili sono stati sostenuti a livello internazionale ben prima di trovare eco in Svizzera.
Concentrarsi sui bisogni di chi ci sta vicino
L’UE ha dimensioni che ci sfuggono. Alcuni la vedono come una nostalgica ambizione imperiale di nazioni un tempo potenze coloniali, altri come un enorme mercato, altri ancora come l’unica speranza di preservare la pace sul continente, e un mezzo per difendere i valori occidentali di libertà e rispetto dei diritti. Checché ne sia, non affrontare la sfida di partecipare in un qualche modo alla costruzione dell’Europa sarebbe un passo indietro, ben peggio di un atteggiamento conservatore, comunque impossibile da mantenere.
Detto questo, ogni concessione che i futuri accordi comporteranno dovrà essere spiegata, e si dovrà cercare il consenso del maggior numero possibile di persone. Se le persone hanno l’impressione che interessi incompresi abbiano la precedenza sulle loro esigenze, si opporranno alle aperture proposte. Dobbiamo anticipare le preoccupazioni e rispondere ad esse, evitando di creare divisioni. Forse col tempo dovremmo pensare di nominare una figura simile al difensore della sovranità nazionale introdotto da Orbán in Ungheria.
In conclusione, se riconoscessimo lo Stato svizzero come un’aggregazione di molte funzioni con poco potere effettivo, in cui fossimo convinti di poter raggiungere un compromesso duraturo tra l’esigenza liberale di limitarne il potere e quella socialista o solidale di intensificare gli interventi per correggere le disuguaglianze e l’esclusione, allora forse saremmo meglio disposti ad aprirci di più all’Europa.
Articolo pubblicato in francese dal sito “Bon pour la tête” e qui tradotto dalla redazione con la supervisione dell’autore
Nell’immagine: l’evoluzione dell’Unione europea fra il 1957 e il 2020