L’Italia che se la canta e se la suona
A pochi giorni dall’inizio del Festival di Sanremo, saga, sagra e specchio del costume italico degli ultimi settant’anni
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A pochi giorni dall’inizio del Festival di Sanremo, saga, sagra e specchio del costume italico degli ultimi settant’anni
• – Gianluca Verga
Le economie dell'Unione Europea imballate o in stagnazione; addirittura in leggera recessione la Germania. Cresce (con oltre il 2% del Pil) soltanto la Spagna del socialista Sanchez
• – Aldo Sofia
Nell’ambito della campagna in corso in vista della votazione del 3 marzo sulla 13ma dell’AVS, accanto al fronte della destra borghese, che vi si oppone, c’è anche un fronte socialista che la combatte per questioni di principio e di equità
• – Beat Allenbach
La banca privata Julius Baer ha concesso prestiti per oltre 600 milioni di franchi al Gruppo Signa dell'austriaco René Benko, che ha dichiarato fallimento lo scorso novembre. Ancora una volta una banca svizzera si trova fortemente messa in discussione
• – Redazione
Cio' che accade dal 7 ottobre sta costringendo la Casa Bianca a una profonda revisione della sua politica in Medio Oriente
• – Redazione
Una piccola minoranza sicura che "non si può rispondere con l'odio all'odio"
• – Redazione
I "gilets verts" si sono mobilitati in Francia: bersaglio l'Unione Europea, che agli agricoltori transalpini garantisce il 30% degli aiuti comunitari a 27 paesi
• – Aldo Sofia
I grandi scioperi che invadono le strade e l’incrinarsi di certi rapporti economici in politica estera sono sintomo che qualcosa, nella ben oliata macchina tedesca, si è inceppato
• – Redazione
Il caso del suicidio della ristoratrice Giovanna Pedretti dovrebbe farci fermare un attimo a riflettere e mostra in maniera lampante alcuni meccanismi dell'informazione che diamo per scontati anziché metterli in discussione
• – Redazione
Quella che una volta era una pratica frutto di studio e competenza è diventata una fulminea e lapidaria sentenza
• – Paolo Di Stefano
A pochi giorni dall’inizio del Festival di Sanremo, saga, sagra e specchio del costume italico degli ultimi settant’anni
Il festival è una saga popolare straordinaria più che una competizione canora e ritorna con la puntuale solerzia degna dell’ufficio esazioni e contribuzioni del Cantone a rappresentare quello che dai primi anni ’50 continuano a dirci esser “il barometro della società italiana”, specchio che riflette e racconta molto più di noi di quanto si creda. Non so sia vero o verosimile, ma credo che una canzone possa anche esprimere l’anima del proprio tempo più di letterati e sociologi. “Nel blu dipinto di blu” docet. La kermesse è un colossale Circo Barnum che meriterebbe di esser raccontato anche nelle sue pieghe, nei suoi gustosi anfratti, nel dietro le quinte, attraverso quella bizzarra umanità e bestiario che lo anima e lo ha reso epico. E credetemi: ho visto e ascoltato cose che voi spiaggiati sul divano non potete immaginare; tra le quali anche risse verbali e no.
Momento autoreferenziale. In Riviera sono sceso dal 1987 al 2020 per una ventina di volte. Per intervistare, incontrare, votare, commentare, stilare pagelle, rinsaldare amicizie e creare nuovi rapporti utili alla mia professione. E avendone vissuto anche gli studi, gentilmente concessi da mamma Rai, oltre alla sala stampa che da tempo immemore è allocata nel Roof, il “mitico” Teatro Ariston è un edificio che conosco in ogni anfratto e in cui ho incontrato ogni sorta di personaggio: dagli usceri ai tecnici alle mascherine, da chi pulisce ai baristi, dai colleghi della carta stampata e non a quel bestiario straordinario e surreale di “appassionati” che tra eccessi, schiamazzi e malati si selfie all’ultimo stadio, di ogni età e censo, stringe d’assedio la cittadina blindata dalle forze dell’ordine per una settimana.
Giorni in cui i prezzi lievitano assai per una camera d’hotel, un pranzo, un aperitivo. Per la gioia degli esercenti, dei ristoratori e dell’Azienda turistica. Il festival si rivela anche esser passerella di politici e assessori, tamarri governati dal testosterone, presunte soubrette e papponi, cariatidi e nobili decaduti della canzone e dello spettacolo. Una variegata e pittoresca umanità che si riversa in Riviera. Ho incontrato anche Baudo, Fazio, Dorelli (l’edizione di Arma di Taggia) ma anche Morandi, Baglioni Amadeus, Conti, Bonolis, la Carrà (a cui offrii un caffè al bancone) senza scordare i 4 ineffabili figli d’arte (Rosita Celentano, Paola Dominguin, Danny Quinn e Gianmarco Tognazzi) goffi e imbranati, che tante risate involontarie hanno donato.
Ognuno con la propria personalità e verità sul festival, come gli alti papaveri Rai presenti e passati e qualche “mammasantissima” del calibro di Adriano Aragozzini. Ognuno con la propria idea anche estetica della musica e delle finalità dello spettacolo. Una peculiare Weltanschauung che cercava di riflettere o modificare anche il tempo sociale di riferimento. Saremo non è mai stata una scienza esatta. Ma qualcosa, anche inconsapevolmente ha raccontato: della musica, di noi, del costume. Ho incrociato le traiettorie di una miriade di artisti o sedicenti tali, meteore o colossi (Nilla Pizzi e Fra Cionfoli compresi), ognuno con una storia, un sogno, delle aspettative da affidare a quel palco unico, ambito, sacro. Accompagnati da discografici, management e uffici stampa che si riversano in riviera per consumare un rituale che sarebbe magnifico raccontare da profilo antropologico.
Ero lì quando Mimì sconvolse emotivamente la platea interpretando “Almeno tu nell’universo”, quando scese quella spalluccia malandrina scoprendo il seno di Pasty Kensit, o quando Elio e le storie tese si presentarono pittati d’argento-Rockets sul palco. Ma fui testimone della “Farfallina” di Belen o spettatore del tentato suicidio di uno spettatore gestito da Baudo. E, per concludere, nell’era moderna, il fato ha voluto mi godessi la madre di tutte le baruffe: quella tra Bugo e Morgan che si mandarono a quel paese in mondovisione e relativi pittoreschi strascichi: minacce, denunce e controdenunce, conferenze stampa, colleghi giornalisti partigiani di uno o dell’altro.
Perché è la polemica, come sappiamo, il sale della manifestazione! Il sale, il pepe e tutte le spezie dell’arco gastronomico che possiate immaginare, declinazioni etniche incluse! La polemica ha la forza di oscurare lo spettacolo e la canzone, spesso ridotta ad orpello; purtroppo, o per fortuna anche a giusta ragione. E a Sanremo si polemizza sullo scibile umano. Al netto di questo personale “amarcord”, ricordando che scandali e polemiche generate dal festival sono sempre funzionali all’ hype della kermesse stessa e alla sua stessa narrazione e mito, in questi giorni apprendo che in 73 edizioni del Festival sono circa duemila le vertenze in materia di illeciti, brogli, accuse di plagio!
E le prime di quest’ anno riguardano gli orchestrali della “Orchestra sinfonica di Sanremo” che denunciano paghe da fame: 3.000 euro scarsi per due mesi di lavoro con orari improponibili. In questo caso la RAI non c’entra, il pattuito lo onora, l’inghippo è altrove. La seconda, a ruota, coinvolge il ruolo dei “producer”, i produttori delle canzoni in gara che si improvvisano direttori sul palco pur non avendo competenza alcuna. E per evitare “l’effetto Michielin” [che portò la giovanissima cantante a dirigere l’orchestra nel brano dell’amica e collega Emma Marrone], per scongiurare dunque, se possibile, “il ridicolo” e lo sberleffo alla categoria, ad alcuni sarà affibbiata una sorta di “badante”, leggasi un direttore vero o qualcuno che di musica, partiture e direzione orchestrale ne capisce. Lasciando purtroppo una volta ancora a casa il più amato dal pubblico festivaliero, la vera icona: il m° Peppe Vessicchio!
Queste le prime diatribe che però non vantano quel mordente che infervora la vasta platea. E che ci auguriamo siano le prime di un gustoso filotto. Quella che infiamma già i social alla vigilia (anche se elitaria o per addetti ai lavori) è dedicata alle scelte operate dal direttore artistico nonché presentatore: Amadeus. Tra le 400 candidature inoltrate tra cui scremare, pare confermata l’esclusione di artisti eccellenti, nomi importanti per intenderci, dal blasone certificato, al netto ovviamente della “costante Jalisse”. E tra gli esclusi molti sarebbero alieni a quel mainstream musicale povero e banalotto in cui versa la canzone pop italiana da tempo, quella dopata dai network radiofonici commerciali da una esaltante narrazione deviata e ormai prona alla suddetta narrazione. Quella magnificata dai numeri digitali per intenderci, dagli ipotetici concerti sold out e suffragata da un’asfissiante costante presenza mediatica.
E questo apre una riflessione, l’ennesima, sull’Amadeus pensiero per il quale la “cassa in quattro” è l’imperativo kantiano così come i testi, che devono esser leggeri, al limite o oltre la banalità, affrancati dal contesto sociale e culturale per parlare una volta ancora e sempre dell’amore in ogni sua declinazione! Ma ciò che più conta, questa canzone, deve vantare potenzialità da tormentone estivo per suffragare la centralità assoluta del festival quale motore della musica italiana di consumo; un podio da condividere col talent della De Filippi. La ricordate pochi anni fa in co-conduzione a suggellare il patto di non belligeranza che prevede altresì la massiccia presenza in gara dei talenti del format? Più che Sanremo dunque il Festivalbar.
Questo è il suo gusto, la sua missione, il suo credo ossessionato come è dalle compiacenti rotazioni dei network radiofonici piegati al mainstream. Dove la parola qualità difficilmente rientra nei criteri delle scelte. Così come l’urgenza espressiva, l’etica artistica, la ricerca. E poi Ama è stato o no speaker radiofonico e dj negli anni ’80 da bere? Non c’è spazio per altro e se c’è, o è un incidente di percorso o lo specchietto per alcune allodole: “apro anche all’indie, alla musica alternativa, indipendente” ecc. ecc. Giusto per ammantarsi di una temporanea verginità ma sapendo di sapere che salvo miracoli la “quota altra” è destinata all’oblio. Perché i numeri impongono il sacrifico sull’altare, o pira che dir si voglia, su cui ardere gli eretici nel nome dell’auditel, delle vendite pubblicitarie e del mercato discografico, in perenna crisi di acido lattico. E non ha senso aprire riflessioni sul perché si è arrivati a cotanto sfacelo.
Ma la polemica vanta una seconda tranche, che contempla gli autori dei brani selezionati e le tre major discografiche che si spartiscono la torta: 4 autori firmano quasi la metà delle canzoni in gara. E sono autori che nelle ultime stagioni hanno “spaccato”, firmando i tormentoni che hanno fatto sfracelli la scorsa estate, a mio avviso banalizzando e omologando davvero al ribasso il suono del pop/urban italiano. Che, amo ricordare, rappresenta solo una parte, esigua, della produzione artistica musicale, ben più ampia, urgente, etica e di valore rispetto a ciò che Sanremo offre.
Citiamone alcuni: Davide Petrella lo scorso anno autore di Mangoni e Lazza, (dunque i primi due del podio) che quest’anno firma ben quattro canzoni – Emma, Ghali, Rose Villan e The Kolors. Anche Jacopo Ettorre ne firma ben quattro – l’Amoroso, BNKR 44, Fred De Palma e Mahmood. Poi c’è chi si ferma a quota 3, Paolo Antonacci, figlio di Biagio e via discorrendo. Peccato per altri autori, giovani e di belle speranze che non avranno mai la possibilità di confrontarsi. L’articolo pubblicato dal Sole 24 ore, e che ha sollevato la questione si chiede pure se Amadeus abbia davvero ascoltato i 400 brani. O se la logica delle scelte dipendesse da altri fattori. Ma a lui, ad Amadeus V e alla Rai la questione non interessa affatto, perché l’hype, gli introiti, i ricavi e l’auditel sono dalla loro parte. Ama V vince e stravince! E le diatribe come sempre si scioglieranno come neve al sole permettendo di archiviare l’ennesima edizione da record.
Infatti, il festival genera da anni profitti, e tanti. Nel 2022 gli introiti derivanti dalle inserzioni pubblicitarie sono stati stellari: dai circa 38 milioni del 2021 ai 42, a fronte di una spesa di 17 milioni. Lo scorso anno è stata raggiunta la quota siderale di 50 milioni di ricavi. Che a fronte dei 17/18 milioni di costi sottolineano la bontà dell’operazione Sanremo per la RAI. Guadagni importanti che permettono al servizio pubblico anche di finanziare altre attività oltre, ovviamente, a spalmare all’infinito da mane sera il festival nei palinsesti radiotelevisivi e online. Una politica aziendale che paga, a 360°. Perché allora cambiare squadra, modulo e filosofia di gioco? Ha pure avvicinato i giovani al festival sostengono, e farà suonare con rigorosa “cassa in quattro” dei settantenni gagliardi quali sono i Ricchi e Poveri. What else? “Perché Sanremo è sempre Sanremo” o no? Macina, consuma ed espelle, polemiche incluse. Fino al prossimo anno.
Nall’immagine: si canta in tempi bui
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