Io e… Sergio Leone
Gli incontri con l’italiano che inventò l’America
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Gli incontri con l’italiano che inventò l’America
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• – Enrico Lombardi
Di Gino Buscaglia
Presentato in anteprima mondiale al Festival di Venezia e da qualche giorno distribuito nelle sale, il film documentario “L’italiano che inventò l’America” di Francesco Zippel [trailer in fondo alla pagina] si ripropone di offrire un nuovo ritratto del grande regista Sergio Leone (1929-1989) attraverso i momenti più intensi e folgoranti della sua carriera ma anche, e soprattutto, grazie alle testimonianze di amici (attori, registi, critici) che l’hanno conosciuto, hanno lavorato con lui, ne riconoscono una sorta di “magistero” tuttora da scoprire in tutte le sue sfaccettature.
E le testimonianze sono di nomi che a loro volta fanno la storia del cinema contemporaneo: da Quentin Tarantino a Martin Scorsese, da Clint Eastwood a Steven Spielberg e tanti altri ancora.
Nel film anche alcune sequenze ed immagini girate dalla RSI, grazie alla tenacia di Gino Buscaglia, giornalista e critico, che scovò letteralmente Sergio Leone in un momento in cui pareva non si parlasse più di lui.
Dopo anni, Buscaglia torna qui, in questo suo racconto-ricordo, pubblicato qualche anno fa da “La Regione”, ad offrirci un suo personale ritratto del regista. Un ritratto affascinante ed emozionante. (red)
Ero da poco approdato alla RTSI quando mi venne un’idea. Andai dalla mia regista e produttrice Augusta “Pupa” Forni e le chiesi a bruciapelo: “Che fine ha fatto Sergio Leone?”. Non era una domanda vera e propria, ma un modo ad effetto per proporle un servizio su questo grande maestro del cinema di cui si erano perse le tracce da almeno un decennio. Eravamo nel 1981 e il suo ultimo film era “Giù la testa”, presentato a Cannes nel 1971. Da allora più niente. Certo Leone non se n’era stato con le mani in mano: aveva prodotto film di altri registi, aveva diretto spot pubblicitari, aiutato sul set giovani promesse del cinema italiano, ma lui come Autore (maiuscola d’obbligo) era scomparso. Si favoleggiava di un grosso progetto, un kolossal, forse ancora western forse no, cui stava lavorando segretamente. Insomma, proviamo a stanarlo? La risposta di Pupa fu immediata: “Datti da fare!”.
E io mi detti da fare, senza immaginare che quel servizio televisivo avrebbe aperto la porta a un rapporto d’amicizia tra i più preziosi della mia vita. Sergio Leone per me era un autentico mito. Conoscevo a memoria ogni suo film scena per scena e conoscevo ogni virgola della sua biografia ufficiale. Solo l’idea di poterlo incontrare di persona mi metteva in fibrillazione. Certo, mi dicevo, non sarà affatto facile. E invece bastarono un paio di telefonate. La sua segretaria, gentilissima. E poi lui all’altro capo del filo, con la sua voce profonda, da basso lirico, che mi diceva sì, che aspettava la nostra squadra… a casa sua!
Partenza da Comano in una giornata uggiosa di febbraio: Pupa, il cameraman, il fonico e il sottoscritto col dito alzato a toccare il cielo. Quello fu il primo incontro, molto cinematografico, quasi hollywoodiano, non foss’altro che per la scenografia. La casa di Sergio Leone si trovava fuori Roma, all’EUR, sulla cosiddetta “Collina dei miliardari”. Era una grande villa circondata da un bel parco alberato e da un alto muro di cinta. Gli ambienti dove girammo le diverse parti dell’intervista potevano tranquillamente ospitare dei set cinematografici: un grande salone con monumentali divani e altrettanto monumentali specchi; il salone degli argenti, così denominato perché tutto arredato da grandi vasi e suppellettili in argento massiccio (l’argento era una grande passione di Leone); il suo studio, stipato di libri e di quadri e di un’oggettistica bizzarra ed eclettica, dove troneggiava una scrivania antica sommersa di carte, tra cui faceva capolino un telefono in argento massiccio (ovviamente!).
L’intervista si svolse piana e fluida, sempre più distesa e cordiale, quasi amichevole. Quando arrivammo a parlare del suo progetto misterioso, che ci rivelò essere non più un western ma un gangster-movie dal titolo “C’era una volta in America”, Sergio Leone si illuminò e ci propose di proseguire in modo itinerante. Ci portò nella zona del ghetto ebraico alla grande sinagoga; ci invitò a pranzo in una trattoria molto popolare al Portico d’Ottavia (pizza bianca come aperitivo e carciofi alla giudìa semplicemente favolosi!). E poi buttò giù dal letto il suo scenografo di fiducia, Carlo Simi, appena rientrato con la famiglia da New York e sotto effetto jet-lag. Il povero Simi ci fece salire nel suo attico e ci accolse in pigiama, offrendoci in prima mondiale le immagini delle sue ricerche dei luoghi dove si sarebbe svolta la vicenda del film. A quel punto Sergio Leone parve dimenticarsi del tutto di me e della squadra che lo filmava: si mise a discutere con Simi delle scene future, del come risistemare le vie in modo da ricreare ambiente e atmosfera degli anni ’30 e così via. Era una vera e propria riunione di lavoro tra loro. Il cameraman filmava tutto e il fonico captava ogni suono. Io e Pupa guardavamo la scena affascinati, finché la moglie di Simi, in vestaglia, ci prese da parte dicendoci: “Venite che vi faccio un caffè, perché quei due quando incominciano non si sa quando finiscono.”.
Quello fu il primo incontro, da cui scaturì il servizio TV che volli intitolare “Sergio Leone, una leggenda in esilio”. Ma io ero stato troppo affascinato da quell’uomo imponente, dalla barba brizzolata e lo sguardo sornione, un po’ da gatto, dalla voce calda e profonda, capace di ammaliare. Così mi inventai delle scuse per poter tornare a fargli visita, tipo un paio di lunghe interviste radiofoniche – dunque io da solo col mio registratore – cui Leone acconsentì ponendo una sola riserva: “Non voglio parlare del mio nuovo film.”. E invece, fatalmente, me ne parlò senza che io facessi nulla per indurlo a farlo. Era chiaro che quel progetto, difficile e macchinoso, lo abitava come uno spiritello maligno. Ricordo che da uno scaffale della sua immensa biblioteca trasse un volume rilegato in rosso – l’ultimo di dodici tutti uguali, cioè le diverse versioni della sceneggiatura succedutesi nel decennio – e mi lesse una scena. No, un momento: dire “lesse” è troppo poco e non rende l’idea. Recitò la scena, tutte le battute dei personaggi e con la giusta intonazione, contrappuntandola con note di regia (primo piano, totale, stacco, primo piano, dettaglio, campo lungo). Ed io mi vidi sbocciare in testa la scena, la vidi come se fossi al cinema! Un momento magico che si riprodusse nel 1984 a Cannes, quando assistei alla prima mondiale di “C’era una volta in America”. Nel momento in cui comparve sullo schermo quella stessa scena sobbalzai: era proprio come me l’ero immaginata nello studio del Maestro, identica in ogni dettaglio. Leone il film l’aveva davvero tutto in testa e doveva solo tirarlo fuori. E quando lo fece consegnò al mondo un capolavoro.
Dopo queste ci furono altre occasioni d’incontro, non molte per la verità, ma tutte intense e indimenticabili, perché stare con Sergio Leone era stare dentro il Cinema, era respirare Cinema, perché Sergio viveva il Cinema come gli antichi maestri rinascimentali vivevano la loro arte, tant’è vero che una volta mi disse che era un peccato che i registi in attività non si preoccupassero di allevare i loro successori come facevano gli artisti del ‘500 nelle loro botteghe. E poi c’era il suo calore umano, il suo gusto per la vita e per le piccole cose nascoste, come l’andare in auto – una delle sue sei Mercedes – dall’EUR al centro storico di Roma e infilarsi nel dedalo di vicoli alla ricerca di quel particolare bar “dove si fa il miglior caffè della capitale”. Come le gare culinarie con Francis Ford Coppola, suo grande amico, per vedere chi cucinava meglio un piatto di spaghetti: gara documentata da una bella foto incorniciata sulla sua scrivania, accanto alla quale sorrideva da un’altra foto un giovane Steven Spielberg con l’autografo “Al mio maestro Sergio”.
Un rapporto che gradatamente passò dal professionale all’amichevole, con l’abbandono del “lei” e il passaggio naturale al “tu”. Con telefonate fatte anche solo per un “Come va?” e un “Che c’è di nuovo?” o un confidenziale “Tientelo per te, ma sto lavorando a un film di guerra sull’assedio a Leningrado”. Un rapporto personale molto gratificante per me, ma che mai avrei immaginato lo fosse anche per lui che era tanto più grande di me. E invece ne ebbi una meravigliosa dimostrazione – che si concretizzò in uno scoop professionale – quando, trasgredendo a ciò che aveva dichiarato al mondo: “Non rilascerò interviste prima della proiezione del film a Cannes”, proprio una settimana prima del Festival ad una mia sfacciatissima richiesta mi rispose: “Dai, vieni con la squadra, dato che mi hai portato fortuna”. Fu forse il più grande regalo che mi sia mai stato fatto.
Poi venne quel maledetto 30 aprile 1989. Sergio Leone fu fulminato da un infarto mentre faceva colazione con sua moglie. Quando lessi il lancio d’agenzia non volevo crederci. Speravo in un errore. Volevo che fosse un errore!… Andai in bagno e piansi come un bambino.
Ma, come si dice, “the show must go on”, lo spettacolo continua. Recuperai il nastro con la lunga intervista che avevo intitolato “Sergio Leone, l’uomo, il regista” e la misi in onda. Ma mi fu difficile presentarla al microfono con quel tremendo groppo in gola.
Qui il trailer del film-documentario “L’italiano che inventò l’America”
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