La vicenda della demolizione dell’ex macello di Lugano si tinge di un nuovo, sorprendente e per molti versi estremamente inquietante episodio. In effetti il procuratore generale Andrea Pagani,
dopo l’annullamento del suo decreto di abbandono deciso lo scorso mese giugno, ha come suo dovere ripreso in mano l’inchiesta.
Uno dei suoi primi atti è stato quello di richiedere alla polizia i verbali delle riunioni dello Stato maggiore, composto da ufficiali di polizia e rappresentanti del Municipio di Lugano, che a suo tempo discusse e stabilì strategie ed azioni da eventualmente intraprendere nel caso si fosse deciso di sfrattare e sgomberare i molinari dal sedime. Ci sfugge il motivo per cui il procuratore generale non l’abbia fatto allora, visto che restava “aperta la questione a sapere quale delle due posizioni sia quella aderente alla verità”, ossia chi tra agenti di polizia e municipali abbia se non mentito per lo meno omesso qualcosa durante gli interrogatori svolti a suo tempo. Ma tant’è, meglio tardi che mai.
Dopo alcune tergiversazioni, pare che la polizia cantonale alla fine abbia adempiuto alla richiesta del PG. Sorpresa: da fonti assolutamente degne di fede siamo infatti venuti a sapere che i verbali sono sì arrivati, ma abbondantemente censurati da righe nere in modo da rendere illeggibili le parti “sensibili” (pare che le cancellature fossero tali da rendere spesso incomprensibili le frasi toccate, che per di più non erano poche). Ovvia la perplessità e lo sconcerto di Pagani, che si è trovato sotto gli occhi una documento che, lo avesse prodotto un privato, che ha tutto il diritto di proteggersi, avrebbe forse potuto capire o concedere la procedura, ma quel che ha ricevuto è un dossier della la polizia, un corpo pubblico di sicurezza il cui scopo è anche di collaborare con le autorità inquirenti e giudiziarie per appurare la verità, qualunque essa sia, e rendere giustizia, indipendentemente dalle conseguenze e da chi ne è toccato. È uno dei principi basilari dello stato di diritto, ci pare di ricordare.
Ovvia quindi la successiva richiesta del Procuratore Generale di ottenere i verbali non censurati, che alla fine gli sono arrivati. Seconda sorpresa, e secondo sconcerto: in busta chiusa e sigillata, dunque nuovamente illeggibili: toccherà adesso a un giudice dei provvedimenti coercitivi aprirli e decidere se il procuratore pubblico Andrea Pagani, ossia il nostro massimo magistrato, potrà leggere senza alcun arbitrario filtro quello che la polizia, con cui dovrebbe collaborare sulla base della massima e reciproca fiducia, ha detto, preparato e fatto un paio di anni orsono in accordo con il Municipio di Lugano.
Piccolo corollario tipicamente ticinese, la presidente dell’ufficio dei giudici dei provvedimenti coercitivi che dovrà occuparsi della spinosa faccenda, risulta molto vicina a uno dei protagonisti della vicenda, côté Municipio, per cui rischia di profilarsi un non lieve conflitto di interessi che dovrà essere risolto, si spera in tempi brevi.
Indipendentemente da ciò, restano in sospeso alcune domande:
- può la polizia cantonale rifiutarsi di consegnare alla procura ticinese dei documenti utili ad accertare dei fatti potenzialmente delittuosi (o comunque consegnarli sapientemente e coscientemente censurati)?
- nel caso di risposta affermativa, come può e potrà in futuro esistere tra le parti quel rapporto di fiducia a nostro avviso indispensabile affinché le inchieste penali siano svolte con rigore e professionalità e il potere giudiziario esprimersi poi nei suoi vari gradi con cognizione di causa?
- in quanti altri casi la nostra polizia ha nascosto alla procura elementi utili ad accertare i fatti?
E chi più ne ha, più ne metta.