No, il cane NO
Riflessione dopo due casi emblematici, che ci parlano più della bestialità dell’uomo che dell’animale
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Riflessione dopo due casi emblematici, che ci parlano più della bestialità dell’uomo che dell’animale
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• – Redazione
Riflessione dopo due casi emblematici, che ci parlano più della bestialità dell’uomo che dell’animale
L’animale ha l’istinto (pensiamo a un cane) o funzionalità pratiche (pensiamo a un cavallo), spesso sfruttati dall’uomo, che rende l’animale cosa o strumento utili o redditizi. È ciò che permette di dominare e togliere all’animale la libertà per utilizzarla solo a convenienze e fini propri, anche abominevoli. Ed è certamente per questo che, andando oltre il maltrattamento degli animali, riprovevole e condannato formalmente anche dalle leggi dell’uomo, ci si chiede, con maggiore insistenza, se anche gli animali non debbano essere soggetti di diritti o avere diritti costringenti l’uomo.
E l’aspetto, che può sembrare paradossale, è quando si deve vedere o constatare la trasposizione del non rispetto dei diritti per l’uomo sull’animale (su un cane, su un cavallo o un asino, ad esempio); è allora che capita di aver maggior compassione per l’animale che non per l’uomo. Perché l’uomo ha la ragione ed avrebbe anche la libertà per poter scegliere o opporsi, mentre l’animale è perlopiù dipendente dalla volontà o dagli interessi dell’uomo, schiavizzato, condannato a subire e, come non-persona e semplice “oggetto” o strumento (di reddito, di ricerca, di compagnia di difesa) senza diritti.
Sono emblematici due casi emersi in questi giorni, cui per motivi diversi si è dato qualche risalto – più per curiosità o devianza “politica”, che per gli interrogativi etici che si ponevano – sui giornali o nelle corrispondenze filmate.
Il primo riguarda la possibile compagna di Trump per la corsa alla Casa Bianca, Kristi Noem. Nella sua autobiografia autopromozionale da poco apparsa (“No Going Back” o “Non si torna indietro”), l’attuale governatrice del Sud Dakota rivela di aver abbattuto con un colpo di fucile il suo cane di compagnia, Cricket, un bracco a pelo duro, di quattordici mesi, perché era troppo indipendente, difficile da domare e, a quanto pare, insidiava le galline di una vicina fattoria. Tanto che nel libro (dove rivela pure di avere ucciso una capra “irascibile e ripugnante”) si giustifica: “È il genere di decisioni che capitano nelle fattorie”. In realtà, Kristi Noem fa parte di quei candidati repubblicani che hanno sempre amato imbracciare fucili, atteggiarsi come “duri” e inflessibili, pronti anche al “lavoro sporco” quando dev’essere fatto. Non è un’illazione e tanto meno un’esagerazione sostenere che quel modo di pensare e di atteggiarsi fa parte della “cultura” americana, estensibile tanto agli uomini e a maggior ragione nel rapporto con gli animali, sacralizzato a quanto pare nel secondo emendamento della Costituzione.
Il secondo riguarda l’arruolamento, da parte della Nato, anche perché gli uomini non sono mai abbastanza (v. Ucraina) di “cani soldato”, di “cani da combattimento” che – come gli aerei Matador a decollo verticale, che (come bestie) ingannano i missili avversari con emissioni di calore – “preparano l’Alleanza a nuovi scenari” (dicono i corrispondenti da Creta, centro delle attuali esercitazioni Nato). I cani appaiono equipaggiati da caschi di protezione, bardati di enormi para-orecchi per non essere distratti dal fragore dei missili, con giubbotti antiproiettile sulla schiena. Sono ritenuti indispensabili sia nel trovare trappole nascoste o nell’aprire la strada al resto delle truppe grazie alla loro rapidità e poiché sono meno raggiungibile dai proiettili (quanto a dire, in parole oneste, che se c’è un campo minato lo segnalerebbero repentinamente con il fiuto o… saltando in aria).
Non è inconseguente o assurdo riconoscere all’animale (al cane) una psicologia e anche attribuire alla sua sofferenza un senso morale. La teoria dei diritti degli animali non è la sola via che si può percorrere se si vuol riconoscere che la loro sofferenza ci interroga. Il miglior modo di rispettarlo non è forse quello di lasciarlo vivere nella sua alterità senza costringerlo nelle nostre identità preconcette (quasi fossero dei deficienti mentali), e nei nostri obiettivi “umani” più egoisti, mercantili o belligeranti, applicando loro le categorie antropologiche più insulse, nefaste, “disumane”? Insomma, perché passare al cane il peggio della ragion dell’uomo?
Nell’immagine: Kristi Noem con un ignaro cane
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