Onirico e sospeso, un racconto che ne contiene mille
Armando Dadò pubblica Fuggiaschi tardivi, di Gertrud Leutenegger. Mito, sogno e realtà si intrecciano in un minuscolo villaggio della Valle di Muggio che assume valenza universale
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Armando Dadò pubblica Fuggiaschi tardivi, di Gertrud Leutenegger. Mito, sogno e realtà si intrecciano in un minuscolo villaggio della Valle di Muggio che assume valenza universale
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Armando Dadò pubblica Fuggiaschi tardivi, di Gertrud Leutenegger. Mito, sogno e realtà si intrecciano in un minuscolo villaggio della Valle di Muggio che assume valenza universale
Nata a Svitto nel 1947, Gertrud Leutenegger può definirsi ontologicamente nomade: come questa sua predisposizione al viaggio – Firenze, Berlino, il Regno Unito, il Giappone, Roma, Amburgo, Zurigo – sia poi diventata anche letteraria e psicologica, impossessandosi dei suoi testi, lo vedremo tra poco. La sua relazione stabile con il Ticino è durata quasi vent’anni: dopo 4 anni in Vallese, avrebbe voluto trasferirsi a Ginevra, che tuttavia si rivelò meta troppo costosa. La scelta cadde allora sul piccolo villaggio di Cabbio, in Valle di Muggio. Qui ha vissuto e ha scritto a contatto con i pochi abitanti del luogo e le famiglie di immigrati portoghesi e balcanici che erano subentrate occupando edifici che altri emigrati – ticinesi questa volta (scalpellini, stuccatori che avevano fatto un po’ di fortuna) – costruirono una volta rientrati in patria. Nei libri di Leutenegger passato e presente si inseguono, si ripetono, sono compresenti: non si fugge – sembra dirci – né dal primo né dal secondo, ne siamo figli in egual misura, chiudere gli occhi è impossibile. Prima di rientrare a Zurigo, dove risiede tuttora, la scrittrice si era trasferita per qualche anno ancora a Rovio. Un suo testo è parte del volume Quattro passi in Valle, del fotografo Giovanni Luisoni (Salvioni, 2003; gli altri sono di Maria Corti, Alberto Nessi e Amleto Pedroli).
Anche Fuggiaschi tardivi (titolo originale Späte Gäste, Suhrkamp, 2020), pubblicato da Armando Dadò Editore, con traduzione di Gabriella de’ Grandi) si svolge nell’estremo sud della Svizzera, tra Cabbio e Schignano, in Val d’Intelvi, nota soprattutto per il suo Carnevale. Scritto in pieno lockdown, il libro non viene definito né romanzo, né racconto. Di un racconto lungo, però, si dovrebbe parlare: 139 pagine, scandite in tre parti (Sera, Mezzanotte, Mattino) per complessivi 52 microcapitoli. Come talvolta accade, anche qui lo spessore intrinseco è inversamente proporzionale alla lunghezza: ci troviamo infatti di fronte a un testo di rara densità, interamente scritto in prima persona dalla protagonista, che torna nei luoghi in cui aveva vissuto un quarto di secolo prima con il compagno e la figlia. Orion, l’uomo, è appena deceduto: siamo in pieno febbraio. Impazza il Carnevale, che già convive strettamente con il lutto e la Quaresima.
Da Orion, da quella figura che già il nome assegna più alla mitologia che alla realtà, lei era fuggita. Ambizioso, egocentrico, megalomane, di professione architetto, sognava di costruire opere che lasciassero un segno come lo hanno lasciato i grattacieli di New York che, insieme a lei, aveva sorvolato, ma da ogni concorso usciva sconfitto. Imponente, gigantesco, sempre più dipendente dall’alcol e sempre indossando un lungo pastrano in pelle nera, si aggirava, misterioso e satanico, per il villaggio e i boschi circostanti con sembianze di fauno. Fedele al suo nome, era appassionato di astronomia e pirotecnica. Aria, dunque, e infinito, ma anche fuoco infernale e immagini mitologiche o dantesche, Acheronte e Caronte. Ora invece eccolo giacere immobile, al buio, nella gelida cappella mortuaria, in attesa del funerale, che si svolgerà poche ore dopo con il ritorno della luce.
La morte, dunque, di una persona che ha accompagnato e segnato la nostra vita; le domande che avremmo voluto porre, i rimorsi, i fatali sensi di colpa che accompagnano chi le sopravvive; tutto è mirabilmente espresso grazie alla narrazione in prima persona. Ricca, precisa, ma anche sobria e senza fronzoli, dà corpo al flusso dei pensieri, a tratti riflessivo, a tratti quasi tumultuoso. In questo procedere magmatico si succedono, nel tempo e nello spazio, associazioni di idee, compresenze ossimoriche e contrapposte, episodi personali e storia collettiva, vicende del passato e derive dei giorni nostri. Senza nulla togliere alla qualità della traduzione di Gabriella de’ Grandi (che si era già misurata con Friedrich Glauser e con Hugo Loetscher), leggere Späte Gäste in tedesco è un passo in più per apprezzare pienamente la stoffa di questa autrice di razza.
Pochi, oltre a quelli menzionati, i personaggi: il gerente del vecchio albergo-locanda, ai margini del bosco, un tempo fiorente, ora in declino, dove la protagonista trascorre il tempo che precede le esequie, in un dormiveglia sospeso tra sogno e realtà, tra suoni lontani e indecifrabili, rumori di passi che non sappiamo se immaginati o reali ai piani superiori del vecchio edificio ormai cadente, dove un tempo un’intera comunità si incontrava, nel salone o sul terrazzo affacciato sul giardino disseminato di palme, esotismi di paccottiglia. In un affresco che la protagonista intravede sul soffitto di una delle stanze il mito fondante di Guglielmo Tell è raffigurato in un paesaggio etneo popolato da animali esotici.
Quella del locandiere è una presenza-assenza, poiché lui, siciliano, spesso torna nella sua terra dove assiste e accoglie i profughi sbarcati dalle carrette dei mari: fedele al suo mestiere di oste, regala riparo agli ultimi. C’è, in penombra, anche sua moglie, Serafina, che nell’albergo che ora ospita la voce narrante, ha perso una figlioletta in tenerissima età, divorata da un incendio.
Fuoco, fiamme, morte, lutto. A cui si aggiunge – in un insieme sospeso tra realtà e visioni oniriche – il Carnevale del villaggio lombardo appena oltre confine dove, da secoli, si mette in scena un confronto tra la fazione dei Belli e quella dei Brutti. Celati dalle maschere grottesche dei Brutti, irrompono nel rito le loro personificazioni contemporanee: profughi, migranti, nomadi, sperdenti e sconfitti, che chiedono di potersi anche loro sedere al banchetto. Il riferimento al moderno Lager dell’isola di Lesbo, distrutto da un incendio, da cui fuggirono in migliaia, è esplicito.
Sono davvero moltissimi gli spunti ed altrettanto numerose le immagini memorabili nel libro di Gertrud Leutenegger, che sa collegare, in modo spesso sorprendente e sempre mirabile, situazioni solo apparentemente lontane tra loro: il Carnevale diventa cosi metafora perfetta e aneddotica del disordine e del caos dei nostri giorni, del naufragio conteporaneo o, più probabilmente, della stessa condizione umana. Un sabba – danse macabre o Totentanz – nel quale convergono anche esperienze autobiografiche della scrittrice: suo padre, ha raccontato, era morto proprio un lunedì di Carnevale, nel Canton Svitto, in quella Svizzera “primitiva” che a questa festa assegna un ruolo così centrale. Si torna allora al dualismo vita-morte, al Carnevale come esaltazione di una disperata, orgiastica voglia di vivere proprio mentre la salma di Orion giace rigida, immobile, al gelo, pochi chilometri più in là, nella cappella da romanzo gotico che sovrasta il piccolo cimitero. Suscitando nei vivi interrogativi fatalmente destinati a restare inevasi ed a spegnersi: chi avrebbe potuto rispondere, quei segreti se li è portati per sempre con sé.
Ultime brevissime annotazioni: 1. La prosa, elegante, ricca, per lunghi tratti perfettamente sorvegliata, poi improvvisamente scatenata e visionaria dell’autrice, è un marchio di fabbrica che la rende riconoscibile fra cento. Recensendo il libro, non ne ho citato neppure una riga: facendolo, farei torto a tutte le altre. 2. Fuggiaschi tardivi ha un impianto potenzialmente teatrale e cinematografico per nulla trascurabile (l’autrice ha studiato regia alla Schauspielakademie di Zurigo ed è stata regista). 3. il volume ha un antecedente diretto nella bibliografia di Gertrud Leutenegger, Pomona (Suhrkamp, 2015), anch’esso ambientato nello stesso villaggio e popolato dagli stessi protagonisti, ai quali si aggiunge la figura della madre defunta, che alla voce narrante appare in sogno, proprio mentre quest’ultima è confrontata con la necessità di fuggire da Orion mettendo in salvo se stessa e la figlioletta.
Ecco perché, dopo Fuggiaschi tardivi, anche Pomona andrebbe ora tradotto per avvicinare ulteriormente alla Svizzera italiana una delle grandi voci della letteratura contemporanea del nostro Paese.
Nell’immagine: Gertrud Leutenegger
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