Di Luigi Manconi, la Repubblica
Quando, qualche tempo fa, sentii affermare che l’esercito israeliano già aveva ucciso un numero di bambini palestinesi «due, tre volte superiore» a quello dei bambini massacrati da Hamas, inorridii. Quella aritmetica dei morti mi sembrò massivamente iniqua in quanto suggeriva l’idea che le vittime dei bombardamenti israeliani potessero “compensare” le vittime del pogrom del 7 ottobre: e, dunque, bilanciare un’infamia con un’altra infamia.
La conseguenza implicita è che l’orrore suscitato dal dato elevatissimo dei civili palestinesi uccisi possa in qualche modo attenuare (alla lettera: ri-dimensionare) l’orrore determinato dalla strage del 7 ottobre. Emerge una questione, in genere non detta o sottovalutata, rappresentata dal peso e dal senso attribuiti al numero delle vittime.
Quando diciamo che non si può fare la macabra contabilità dei morti, affermiamo, sì, qualcosa di giusto, ma rischiamo di rifugiarci dentro questa elementare saggezza e di rinunciare a guardare oltre.
Insomma, è vero che anche un solo ucciso è troppo e che il rifiuto assoluto della vendetta è un principio del diritto contemporaneo, ma si ha vendetta esattamente quando la reazione a una ingiustizia eccede una misura convenzionalmente accettata.
Ovvero quando quella stessa reazione stravolge qualsiasi indicatore di proporzionalità: e la proporzionalità, a sua volta, viene valutata anche in base ai numeri, oltre che all’efficacia dell’azione condotta.
Torniamo allora alla data del 7 ottobre. Prima di quel giorno, le condizioni della vita collettiva (a Gaza, in Cisgiordania, in Israele) non sono propriamente quelle di uno stato di pace.
L’azione di Hamas ha un effetto dirompente per molte ragioni: perché ha i connotati di un pogrom, perché rivela una volontà stragista e discriminatoria (uccidere gli ebrei in quanto ebrei), perché persegue la degradazione del nemico (gli stupri, l’ostentazione dei cadaveri, l’oltraggio sui corpi).
Ma anche perché — ecco i numeri — introduce nella cupa ordinarietà della violenza (quella dei coloni, quella degli attentatori) un elemento di eccezionalità: oltre 1.200 morti e circa 240 rapiti nell’arco di poche ore. Questo fa dell’eccidio del 7 ottobre un unicum nella storia della persecuzione degli ebrei dopo la Seconda guerra mondiale.
È quanto rende quel giorno di ottobre un punto di svolta. Non si possono ignorare, certo, le cause antiche del conflitto e le responsabilità dei diversi soggetti: e, tuttavia, è come se l’azione di Hamas costituisse un evento di rottura che impone di ripartire da capo.
L’unicum rappresentato da quei morti nella storia dell’antisemitismo “dopo Auschwitz” ha innescato una risposta di Israele che, a sua volta, va considerata nella sua attualità e nel suo sviluppo. Secondo proprio criteri di efficacia, responsabilità e proporzionalità.
Alla luce di ciò penso che la strategia di Israele sia ormai trascorsa dalla dimensione della giusta difesa e della punizione del nemico a quella della rappresaglia iniqua e irrazionale: il che porta a qualificare una parte considerevole delle azioni dell’esercito di Israele come crimini di guerra. Se non ragionassimo così, sempre il danno subito finirebbe con il giustificare ogni danno arrecato, futuro e permanente.
D’altra parte, l’incrudelire del conflitto ha avuto un effetto perverso: la crescita dell’ostilità nei confronti degli ebrei della diaspora e il diffondersi dell’antisemitismo e della sua aggressività, in particolare in Francia, in Germania e negli Stati Uniti.
Di conseguenza, ci si deve porre il seguente interrogativo: c’è una soglia che traccia il limite oltre il quale la reazione diventa vendetta, sacrificando ogni strategia politico-diplomatica? Tale domanda può assumere termini ancora più brutali: quante vittime innocenti è lecito mettere nel conto al fine di sconfiggere il male?
È una questione antica che ha attraversato tutto il secolo scorso e che ha interpellato drammaticamente il diritto internazionale, ma anche la filosofia morale e la teologia cristiana. E che ha avuto i suoi passaggi cruciali nei bombardamenti sulle città tedesche, a opera dell’aviazione inglese e di quella statunitense, e nel lancio delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki.
Basta aver letto il grandioso Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut e l’inquieto carteggio tra il filosofo Günther Anders e Claude Eatherly, il pilota del bombardiere che colpì le città giapponesi, per cogliere quanto la materia sia densa e incandescente, priva di soluzioni esaurienti e definitive.
Si impongono, così, dilemmi esigenti e radicali, a partire dal fatto che nei bombardamenti su Amburgo e su Dresda persero la vita molti fedeli complici della Wehrmacht, tanti «volenterosi carnefici di Hitler» (Daniel Jonah Goldhagen) e, presumibilmente, oppositori e vittime del nazismo. E bambini.
Ne valeva la pena? Analogamente si pone il quesito: le vittime del lancio dell’atomica — che così significativamente contribuì alla fine della guerra — hanno costituito un costo necessario ed equo? Domande crudeli, ma ineludibili.
Se pure non vogliamo mettere in discussione un giudizio storico ormai acquisito, a ottant’anni da quei fatti le tragedie del Novecento dovrebbero aver affinato il nostro pensiero politico e la nostra coscienza morale, così da rendere più intelligente e meno indiscriminata la capacità di difesa degli Stati democratici.
Il fatto che gli ultimi trent’anni di storia mondiale tendano a smentire una simile ottimistica idea non deve indurre ad abbandonare la ricerca di mezzi meno «antiquati» (la definizione è dello stesso Anders) per la soluzione dei conflitti.
Nell’immagine: alcune delle migliaia di gru di carta tradizionalmente confezionate dai bambini giapponesi in ricordo delle vittime delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki