Di scissioni e pluralismo

Di scissioni e pluralismo

Le elezioni di quest’anno ripetono vecchi scenari socialisti, fatti di litigiosità e faticoso pluralismo


Fabio Dozio
Fabio Dozio
Di scissioni e pluralismo

Nel partito socialista ci voleva una scissione. Non capitava da un po’ e i compagni non hanno resistito al richiamo della storia.

In Ticino la spaccatura più importante risale al 1969, con l’espulsione dal PST dei giovani di sinistra e la conseguente nascita del Partito socialista autonomo (PSA). Malgrado la perdita di voti, alle elezioni del 1971 e del 1975, il PST confermò il consigliere di stato Benito Bernasconi, mentre il PSA decise di votare scheda bianca per il governo (4,7% nel 1971 e 5,1% nel 1975).

Nel 1979 il PSA propose una lista per il Consiglio di stato capeggiata da Pietro Martinelli, promotore della “strategia delle riforme”. La sinistra degli autonomi criticò la svolta come “un’involuzione socialdemocratica”.  A metà degli anni ottanta una nuova crisi portò una parte del PST, capitanata da Dario Robbiani, ad avvicinarsi al PSA, sostenendo, nel 1987, la candidatura di Pietro Martinelli per l’esecutivo. Contemporaneamente il PST riconfermò Rossano Bervini e così si ritrovarono due socialisti in governo, fino alle elezioni del 1991, quando Martinelli sconfisse Bervini. 

Nel 1992 i socialisti si riunificarono. Martinelli – sottolineano gli storici Pasquale Genasci e Gabriele Rossi nell’ottimo Tracce di rosso – “si dimostrò disponibile ad entrare in materia su alcuni sgravi fiscali in cambio di un sostegno alla politica sociale che intendeva promuovere. Un avvicinamento criticato dalla sinistra del partito, in particolare da Franco Cavalli che lo considerò inoltre troppo socialdemocratico”. Ma le dispute tra anima radicale e socialdemocratica non finirono. Alle elezioni del 1999, per sostituire Martinelli, il partito presentò una lista di battaglia dove ebbe la meglio Patrizia Pesenti, rappresentante dell’ala moderata, che superò il presidente del partito John Noseda, ex PSA (ed ex PPD).

La storia ministeriale del PS iniziò più di cento anni fa ma, malgrado il confronto tra massimalisti e riformisti, come si diceva allora, il risultato è modesto. Non è successo quel che sognava Guglielmo Canevascini: “Noi dobbiamo fare opera di penetrazione e dobbiamo accelerare il dissolvimento dei partiti borghesi affrettandone l’abbraccio”. (Tracce di rosso). A ragion veduta, i partiti borghesi non si sono dissolti, hanno perso forza, ma non a favore dei socialisti, che sono in perdita continua.

Alla vigilia delle elezioni di quest’anno, nuova scissione. Se n’è andata una parte della componente socialdemocratica. La lista blindata rossoverde non ha avuto successo e “il PS è stato in qualche modo sanzionato a favore di Avanti e di Mirante in particolare”, ha commentato il politologo Andrea Pilotti. La gestione dei due giovani copresidenti, sostenuta dalla direzione del PS, ha portato alla rottura e alla sconfitta elettorale. Il seggio in governo è stato salvato solo grazie all’apporto dei Verdi. 

Il Forum alternativo ha definito “politicamente giusta, tatticamente no” la decisione del PS di escludere l’economista che quattro e otto anni fa ha contribuito a salvare il seggio di Bertoli. Il “politicamente giusto” non è facile da definire, perché ai programmi si è dedicato poco tempo e spazio. Molti hanno evidenziato che si è trattato anche di una diatriba personale, come già visto in passato. Poi, con il quadro politico spostato a destra, non sarebbe opportuno occupare spazio al centro sinistra? Il “tatticamente sbagliato” l’hanno visto tutti, salvo l’apparato del partito.

A una lettura, seppur superficiale, appare verosimile che sia riemersa la classica divisione fra ex PST ed ex PSA, un contrasto che ha connotati storici, più che strettamente politici. Inoltre, sembra di intravedere una frattura di tipo generazionale. I due copresidenti, giovanissimi, hanno mobilitato compagni, amici e coetanei, tant’è che in Gran Consiglio sono stati eletti sei giovani su dodici e quattro uscenti sono rimasti a casa.

Per il Consiglio di stato ha avuto il sopravvento l’allestimento della lista (8 ore e 36 minuti di congresso) su dibattito, programma, azione e lotta. 

Dunque, sempre e soprattutto partito di governo, come negli ultimi 102 anni: riformisti e ministeriali. “In fondo, – sottolineava lucidamente Guido Pedroli negli anni Sessanta – siccome non si aspettavano la rivoluzione né dalle loro idee né dalla loro azione diretta ma tutt’al più dal corso stesso delle cose, i socialisti ticinesi potevano continuare a parlarne, mentre accettavano come ‘rivoluzionaria’ ogni riforma genericamente sociale attuata con il consenso della maggioranza borghese”.

Uno dei pochi atti di rottura recenti in governo fu lo “sdraiarsi sui binari” di Patrizia Pesenti, quando rifiutò i tagli alla socialità previsti dai colleghi: la consigliera dell’ala socialdemocratica ruppe il mito della collegialità. L’evento contribuì al successo nelle elezioni federali (questo ottobre si vedrà…).

Dove stanno i confini del pluralismo socialista? 

Le dinamiche elettoralistiche di quest’anno si inseriscono organicamente nelle vicissitudini della storia socialista, incapace, da sempre, di realizzare la tanto sbandierata “sinistra pluralista”, l’unità nella diversità, come pure di impegnarsi più nell’azione sociale che nella corsa al governo. 

E visto il sogno infranto dell’abbraccio dissolutore canevasciniano, dopo più di un secolo, non vale la pena di provare a star fuori dal governo?

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