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PST e Verdi hanno voglia di invertire la tendenza di questi ultimi anni, che vede un Ticino sempre più pendere a destra sia come peso complessivo delle singole aree politiche sia all’interno dei singoli partiti, con i radicali e i cristiano-sociali ormai buoni per partecipare a chi l’ha visto. Una voglia che passa da una parola magica, che detta a sinistra ha quasi un sapore di bestemmia, o di eresia: unione, un fronte unico rosso-verde per tentare la scalata al secondo seggio in Consiglio di Stato, mobilitare delle truppe un po’ stanche e demoralizzate e, non sia mai, raddrizzare un po’ gli equilibri in Gran Consiglio.

A sinistra i vertici sognano in grande. Per trasformarli in realtà e non in incubi ovviamente la strada è lunga, irta e complessa. Anche perché un’elezione, qualsiasi elezione, ad un certo punto diventa una mera questione aritmetica: ad urne chiuse si contano i voti e si ripartiscono i seggi; tutto quello che c’è stato prima non conta.

E i numeri, purtroppo per la sinistra, sono impietosi, il sistema elettorale ticinese pure. Cominciamo da questo. In Ticino i seggi in Governo sono cinque, divisi tra quattro partiti secondo un metodo relativamente complicato fatto di quozienti e resti che qui importa poco spiegare. Il dato che conta è che da quando nel panorama politico cantonale è apparsa la Lega, quattro seggi sono assegnati ai quattro partiti oggi rappresentati in Governo, il quinto al partito, o per meglio dire alla lista che raccoglie più voti. Punto. Il resto sono bazzecole, quisquilie, pinzillacchere.

La domanda perciò è: riusciranno PS e Verdi, eventualmente uniti alle altre formazioni di sinistra, a diventare la prima forza politica del Cantone? (quando avete finito di ridere, continuate pure la lettura). Mission impossible? Numeri alla mano sì. Alle elezioni del 2019 infatti PS e Verdi assieme hanno ottenuto il 21,39% dei voti per il Consiglio di Stato, qualche decimale in meno per il Gran Consiglio; Lega e UDC il 27,86% per il Consiglio di Stato ma oltre un punto meno (26,66%) per il Gran Consiglio. In soldoni, ammesso e non concesso che una lista unica rossoverde raccolga almeno la stessa percentuale delle due liste separate (di solito è meno, ma sperare non costa nulla), tra il risultato della Lega e quello della sinistra unita c’è un divario di circa 6,5 punti percentuali, “solo” il 5,3% se si prendono i risultati del Gran Consiglio.

Per colmare questo non indifferente gap iniziale la sinistra deve dunque anzitutto sperare in un calo di Lega-UDC e in una contemporanea stasi del PLR (24,49% al CdS, 25,33% al GC nel 2019), poi confidare per lo meno in un’astensione tattica dall’elezione per il Consiglio di Stato delle altre forze di sinistra (MPS compreso; quando avete finito di ridere per la seconda volta, continuate la lettura), che teoricamente porterebbero in dote il 2,5% circa dei voti e dunque ridurrebbero il distacco tra i 3 e i 4 punti percentuali, e infine presentare una lista di battaglia che mobiliti e riporti alle urne buona parte del suo elettorato di riferimento, che non è scarso, in particolare quello socialista. 

Dunque una lista con Greta Gysin e, soprattutto, Manuele Bertoli (quando avete finito di ridere per la terza volta, riprendete la lettura), perché in una costellazione del genere al netto di simpatie e antipatie la dote di visibilità e di voti che porta un consigliere di Stato uscente non può assolutamente essere sprecata.

Mission impossible? Sempre e comunque, anche se forse un po’ meno rispetto ai dati iniziali, che sei punti percentuali non li recuperi, due o tre, calcolando anche l’accresciuta mobilità dell’elettorato ticinese, forse sì.

L’alternativa è correre come si è fatto finora, ossia con due liste separate, confidando che una ottenga un seggio alla prima ripartizione, l’altra un quoziente di resto alla seconda ripartizione più alto di quello ottenuto dalla lista più votata. Finora nella storia elettorale ticinese questa possibilità ci risulta essersi verificata una sola volta, quando la decisione della destra di sostenere il socialista Rossano Bervini per sbarrare la strada del Governo a Pietro Martinelli, candidato del PSA e liste di sinistra congiunte, portò incredibilmente all’elezione di entrambi. 

Era il 1987, la Lega non esisteva ancora neppure nelle più allucinate e lisergiche fantasie di Giuliano Bignasca. La differenza è sostanziale, perché una prima ripartizione a tre e non a quattro permetteva anche a un partito che non raggiungeva il quoziente per il seggio al primo tentativo di sperare di avere i voti per ottenerne uno se non in seconda per lo meno in terza battuta. A Martinelli quindi bastò (si fa per dire) raccogliere circa il 12,5% dei voti per essere eletto; oggi ai Verdi sulla scorta dei risultati del 2019 occorrerebbe circa il 14%. Un punto e mezzo in più può non sembrare molto; tuttavia finora il miglior risultato degli ecologisti in un’elezione non raggiunge neppure la metà di quanto necessario (nel 2019 4,33% per il Consiglio di Stato e 6,63% per il Gran Consiglio; nel 2015 6,56% e 6,02%…). 

Sorprende dunque l’unanimità con cui i vertici del PST hanno accolto l’ipotesi di formare una lista unica con gli ecologisti, poiché, visto che difficilmente ne otterranno due, il rischio di ritrovarsi nella primavera del 2023 con un/una consigliere/a di Stato verde al posto di quello detenuto da ormai 100 anni da un socialista è concreto.

Paradossalmente alla sinistra potrebbe fare gioco cambiare il sistema per l’elezione degli esecutivi proprio nella direzione da lei sempre aborrita, che è poi quella in voga in tutti gli altri cantoni svizzeri: il maggioritario. Perché così come è adesso, il sistema è praticamente bloccato (quattro seggi ai primi quattro partiti e il quinto alla lista più votata), mentre in un’elezione maggioritaria, dunque in sé più nominale che partitica, ecco che dei candidati forti e di spessore qualche chance di essere eletti se non al primo per lo meno al secondo turno ce la potrebbero anche avere. Entrambi.

Poi, naturalmente, si potrebbe pure rischiare di essere esclusi dai giochi che contano e di consegnare il Governo al centrodestra. Dunque di essere costretti a tornare a fare opposizione pura e dura e di ripensare la linea politica. Davvero, passato lo choc iniziale, sarebbe un dramma?”

Nell’immagine: Katsushika Hokusai, “In attesa dell’ondata rosso-verde”, 1830 ca. 






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