Putin e la grande bugia
Per raggiungere i suoi obiettivi, soprattutto l’offensiva massiccia contro l’Ucraina, il presidente russo non esita a ricorrere alle più smaccate menzogne
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Per raggiungere i suoi obiettivi, soprattutto l’offensiva massiccia contro l’Ucraina, il presidente russo non esita a ricorrere alle più smaccate menzogne
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Per raggiungere i suoi obiettivi, soprattutto l’offensiva massiccia contro l’Ucraina, il presidente russo non esita a ricorrere alle più smaccate menzogne
Di Paolo Garimberti, La Repubblica
Contro ogni evidenza, Vladimir Putin ha scelto la versione a lui più congeniale dell’attacco terroristico alla Crocus City Hall di Mosca. Ne ha attribuito la responsabilità diretta, come mandanti e addirittura organizzatori, all’Ucraina, agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, a “quell’Occidente collettivo” e al suo braccio armato, il “regime nazista” di Kiev, che lo zar ha designato come implacabile nemico.
Secondo un rituale consolidato, non è stato Putin a lanciare l’accusa. Lui si è limitato, nelle ore successive all’attentato, a indicare la traccia. Che poi è stata seguita ed elaborata dai suoi zelanti esecutori, in un’escalation di accuse, che contengono implicite minacce.
In ordine cronologico, il primo è stato il segretario del Consiglio di sicurezza Nikolaj Patrushev, considerato l’uomo più potente della nomenklatura putiniana («il diavolo che sussurra sulla spalla del presidente», secondo la definizione del grande esperto Mark Galeotti). Per il quale la colpa è stata «certamente» dell’Ucraina, non dell’Isis.
Il secondo è stato il direttore del Fsb, i servizi di sicurezza interna (l’ex Kgb, da cui Putin proviene), Aleksandr Bortnikov, il quale ha fatto il passo successivo: gli attentatori sono stati addestrati da Kiev in Medio Oriente. Aggiungendo che volevano fuggire in Ucraina per «essere accolti come eroi dall’altra parte».
Poco importa se nella ricostruzione disinformata, una specialità della casa peraltro, c’è una contraddizione con quanto dichiarato dal vassallo bielorusso del Cremlino Lukashenko, secondo il quale i quattro terroristi tagiki hanno tentato di entrare in Bielorussia nelle prime ore dopo l’attentato (plausibile, visto che la targa della loro auto era proprio bielorussa).
Con questa narrazione deviata e a senso unico, Putin si propone tre obiettivi. Il primo è giustificare un’escalation militare contro l’Ucraina, cominciata subito dopo l’attacco al teatro moscovita con una pioggia di missili su Kiev, Leopoli e Odessa.
Dmitrij Medvedev, che in passato serviva a tenere in caldo le poltrone per Putin quando c’erano ancora limiti costituzionali alla presidenza vitalizia, spesso straparla. Ma funge anche da “utile idiota” per il Cremlino. E non a caso, dopo il massacro alla Crocus City Hall, aveva minacciato dure rappresaglie contro i vertici dell’Ucraina. Anticipando di fatto quella che è diventata la versione ufficiale di Mosca.
Il secondo obiettivo di Putin è recuperare credibilità nei confronti dei suoi connazionali, che appena una settimana prima lo avevano incoronato per la quinta volta con un plebiscito elettorale (al netto di tutti i dubbi sull’autenticità dei dati di affluenza e consenso) aprendogli la prospettiva di restare al Cremlino fino al 2036.
La sera delle elezioni, intervistato da una platea compiacente di sostenitori e giornalisti, Putin aveva garantito ai suoi elettori forza militare, sicurezza interna e tranquillità economica (grazie a un’economia di guerra che gonfia tutti i parametri).
Questa immagine muscolare e rassicurante è stata sgualcita dall’attacco di venerdì 22 marzo, che ha riportato i russi ai primi anni del secolo, e del primo mandato di Putin, marchiati da attacchi terroristici a condomini, teatri, scuole.
Attribuire la colpa della strage alla Crocus City Hall allo stato di guerra, oltre all’esibita brutalità della polizia nel trattamento degli arrestati, è un modo subdolo per calmare le ansie dei russi, mai del tutto sopite, per la minaccia del terrorismo islamico e alleggerire quelle che Andrej Soldatov, nell’intervista a Repubblica, ha definito «le falle ataviche dei servizi di sicurezza russi»: inefficacia nella prevenzione e nei controlli, oltre che incompetenza dei servizi di emergenza.
Infine, puntando il dito contro Ucraina, Stati Uniti e Gran Bretagna, Putin cerca di smentire quella che per lui è una realtà inaccettabile: cioè che per il terrorismo islamico la Russia e l’Occidente sono eguali, e non c’è differenza tra cristiani cattolici e ortodossi.
Anzi, con le azioni contro il Califfato in Siria, il contrasto all’espansione islamista nel Sahel e in altre parti dell’Africa (affidato ai mercenari della Wagner), la repressione dei musulmani in Cecenia e in Daghestan, la Russia è per l’Isis-K un nemico perfino più mortale dell’Occidente.
Proprio per non riconoscere questa verità, Putin aveva irriso come «propaganda» gli avvertimenti americani e britannici, resi pubblici il 7 marzo, di un possibile attentato durante un evento a Mosca. Come ha scritto un commentatore francese, Philippe Gélie, «questo Bataclan russo rimette la Russia nel campo occidentale, contro il quale crede di essere in guerra».
Per raggiungere questi obiettivi, soprattutto l’offensiva massiccia contro l’Ucraina, Putin, con la cinica impudenza imparata alla scuola del Kgb (che aveva un direttorato preposto alla disinformatija, antenata delle attuali fake news), non esita a ricorrere alle più smaccate menzogne. Facendo venire alla memoria un precedente da brividi: il discorso di Hitler al Reichstag il 1° settembre 1939, il giorno dell’attacco alla Polonia, nel quale rovesciava la colpa della guerra sulle «atrocità polacche» per giustificare l’invasione nazista. «Un sorprendente catalogo di bugie», lo ha definito Ferdie Addis nel suo libro sui discorsi che hanno cambiato la Storia. Un catalogo al quale Putin sembra essersi ispirato.
Nell’immagine: le macerie della Crocus City Hall
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