Quando della violenza si fa spettacolo
Riflessioni sull’uso discutibile che i media fanno a volte di parole e immagini di orrore – Con una nota redazionale di Aldo Sofia - Di Manuela Mazzi
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Riflessioni sull’uso discutibile che i media fanno a volte di parole e immagini di orrore – Con una nota redazionale di Aldo Sofia - Di Manuela Mazzi
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• – Redazione
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• – Silvano Toppi
Riflessioni sull’uso discutibile che i media fanno a volte di parole e immagini di orrore – Con una nota redazionale di Aldo Sofia - Di Manuela Mazzi
Continua la spettacolarizzazione della violenza. Anche sui nostri media, dove non ci si deve guadagnare lettori ballando sui cadaveri, per rubare la scena a concorrenti non meno spietati. Una spettacolarizzazione fatta di parole e di immagini.
Immagini di guerra, per la maggiore. Basta farsi un giro online (evitiamo di indicare autori e testate – non ci interessa puntare il dito, d’altronde sembra che non si possa risparmiare nessuno, nemmeno noi, oggi).
Una fotografia su tutte è girata in questi giorni, in Ticino e altrove, sembrerebbe ovunque: l’abbiamo scaricata sul desktop e fatichiamo a guardarla per potervela descrivere senza farci contorcere le viscere, senza sentire male nell’anima, senza intuire un dolore interno, al cervello.
Alle fiamme che stanno sullo sfondo, quelle che lambiscono un immobile già in macerie, siamo abituati, ormai. Alle carcasse delle auto ridotte in scheletri neri di ferro carbonizzato, pure. Il militare in grigioverde, chi ci fa più caso? Sorprende già di più il soldato a torso nudo che sta in secondo piano, ed è ciò che attira, creando la devastante trappola, dato che a quel punto, si entra nel raggio di percezione dello sguardo periferico. E là, a terra, il corpo di un uomo. Un cadavere. E siam qui a far fatica a dirlo. Perché dicendolo, ci costringiamo nostro malgrado a entrare a far parte della spettacolarizzazione del male. Una lotta a un “malandazzo” retorico, combattuta con la stessa iperbole drammatica. E pertanto ci scusiamo. Certi che violentare la mente di un lettore, non salverà tanti uomini e donne e bambini che vengono trivellati (altra spettacolarizzazione: ci scusiamo di nuovo).
Una retorica fatta questa volta di parole. Parole prestate a narrazioni agghiaccianti, come quelle – sempre sui nostri media – che si spendono per descrivere stupri, botte e altre violenze, perpetrati contro le donne, sempre fragili vittime, ma ancora più svilite facendo loro rivivere l’umiliazione, che non è data da quella vergogna di cui parlano i media, “la vergogna di sentirsi in colpa per non essere state capaci di evitarlo”, no, è la vergogna di mostrarsi di nuovo nude, di nuovo violentate, di nuovo impotenti, ma questa volta davanti allo sguardo di un pubblico: «Pilar lo guarda con gli occhi sbarrati. La bocca spalancata, il respiro affannoso. Lui le stringe le mani al collo mentre continua a insultarla. Lei (…) come un animale terrorizzato ha orinato per terra. (…). È una scena – terribile – del film spagnolo Ti do i miei occhi (Te doy mis ojos) che racconta di violenza domestica.», si leggeva qualche tempo fa in un articolo sempre apparso dalle nostre parti. È una scena di un film, è vero: ma bisognerebbe distinguere i ruoli, esiste la fiction, la narrativa, e poi esiste la realtà. Vergogna! Quella che prova una donna che ci è passata, e le tocca rivivere il tutto leggendo queste scene. Per non parlare di chi la “manda in vacca”: «La cultura dello stupro in salsa inglese», titolava un’altra testata. Vergogna! Per la derisione di chi fa parte di un circo, quello mediatico che sulle sofferenze sembra continuare a volerci campare.
Si riuscirà mai a tornare a un linguaggio, a una narrazione giornalistica più adeguata, più rispettosa del dolore delle vittime, che preservi anche i lettori più sensibili?
Gentile collega Manuela Mazzi,
la ringraziamo di averci inviato le sue riflessioni sull’uso a suo giudizio inopportuno, addirittura ingiustificabile e “vergognoso”, di immagini, parole, espressioni che ricorrerebbero sempre più frequentemente sui giornali, anche i nostri, nel riferire di episodi di violenza, che si tratti degli effetti della guerra (qualunque guerra) o di violenza sulle donne, e d’altro ancora.
Abitualmente la redazione non risponde alle considerazioni presentate nella rubrica “Ospiti e opinioni”. Se abbiamo deciso di farlo in questa occasione è perché sappiamo che altri lettori, magari senza necessariamente lanciarsi in accuse così infuocate e sbrigative nei confronti dei media, possono a loro volta interrogarsi ed eventualmente condividere le preoccupazioni da lei sollevate. Certo, non escludiamo che sul mercato dei media vi siano un po’ ovunque testate giornalistiche che con eccessiva disinvoltura ed evidente compiacimento percorrono, senza troppo interrogarsi, la strada della spettacolarizzazione dei fatti violenti più gravi, nella convinzione, in realtà non sempre suffragata dai numeri, che questo approccio serva ad attrarre una più ampia platea di lettori o telespettatori. Approccio che assolutamente non apprezziamo.
Non vorremmo tuttavia che si facesse confusione fra un uso deplorevole di immagini e descrizioni che colpiscono anche l’intimo delle vittime di un’aggressione, con quello che rimane comunque il dovere giornalistico di riferire a volte la cruda realtà, evitando che una cronaca asciutta e asettica, cloroformizzata e neutrale, non faccia cogliere al pubblico la sostanza brutale dell’accaduto. Ci devono essere momenti in cui questi fatti vanno raccontati per ciò che realmente sono e per ciò che concretamente producono sulle vittime e sulla società; facendo in modo che il pubblico non venga lasciato sempre in un limbo di sole ipotesi e presunzioni, in un immaginario anestetizzato, e mai messo di fronte alla dura realtà, come se questo tipo di ‘tutela’ aprioristica non possa essere a sua volta dannosa e fuorviante.
Dunque: non è certo il caso che un quotidiano esca ogni giorno con una o più foto strazianti, o che un TG mostri ad ogni edizione le riprese dei corpi lacerati da combattimenti e bombardamenti, sarebbe del resto una ripetitività che avrebbe l’effetto di banalizzare eventi così tragici e in sostanza di allontanare il pubblico; ma certe riprese video che testimoniano e fanno ancor meglio capire cosa significhi l’assurdità della guerra, della sua ferocia, e delle sue nefaste conseguenze e in definitiva anche delle sue responsabilità, a volte vanno diffuse, non insistendo nella durata ed evitando le immagini più insopportabili. È compito del/la giornalista trovare in entrambi i casi il giusto e non scontato equilibrio.
Infine, una domanda che si pongono anche le redazioni: le vittime innocenti, sopraffatte, martoriate, eliminate, fatte sparire, avrebbero avuto oppure no il desiderio che certe scene che denunciano e inchiodano alle proprie responsabilità i loro carnefici venissero mostrate, come prova della loro inenarrabile sofferenza e come monito per tutti? I milioni di prigionieri ebrei dei lager nazisti accompagnati alle camere a gas, sarebbero stati o non sarebbero stati d’accordo sulla necessità che il mondo li “vedesse”, nudi e indifesi, con i bambini spaesati a fianco, avviati verso il patibolo delle camere a gas? Come atto di denuncia e prova inappellabile di quanto accadde, mentre siamo ancora confrontati ad uno stolto negazionismo del male assoluto?
Aldo Sofia
Manuela Mazzi è giornalista e scrittrice
Nell’immagine: la fotografia citata nel testo
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