Osserva Andrea Ghiringhelli (certamente una delle menti più lucide e analitiche di questo Cantone, e non solo)
nella prefazione al suo libro “La trave nell’occhio. Alla ricerca della politica” (che è lettura consigliabile a tutti i nostri politici intelligenti o meno):” Ci dissero che le ideologie sono finite e vale la nuova regola della politica pragmatica e basta con le utopie: quello che importa è la politica della concretezza, della risposta ai problemi del presente, del fare. Ho sempre pensato che, quella della fine delle ideologie, fosse una solenne sciocchezza perché sono le ideologie che ci consentono di superare l’angustia del presente, di disegnare una visione del futuro e orientare le politiche pubbliche sul lungo periodo” (precisando, “a scanso delle obiezioni: per ideologie “intendo quel complesso di idee e di valori che, rifuggendo da qualsiasi forma di dogmatismo e settarismo, ci propone una visione del mondo”).
La gogna e la buaggine
Capita oggi, frequentemente, nell’arena politica o in quella che Ghiringhelli definisce “cachistocrazia” (dal greco antico “kakistos”, pessimo” e “kratos”, comando, governo) – che è poi quella forma politica che costituisce la forza di certi movimenti partitici che vanno per la maggiore con disinformazione e ignoranza – di sentirsi opporre l’obiezione: “questa è tutta ideologia”, questa “è solo ideologia”, a chi formula argomentazioni o indica problemi che riguardano la natura, il clima, l’energia, il traffico, la fiscalità o persino l’identità di genere (si veda il caso dell’agenda scolastica). E come tale, quindi, deve tacere o è squalificato come “politico”. Ci sono due aspetti paradossali, convergenti, che non si rilevano mai in queste circostanze: il primo, è che l’accusa diventa come una gogna; il secondo è che chi ti accusa ricorre a sua volta a una più stantia e artefatta ideologia. E cade così a pezzi con la buaggine anche la democrazia.
Un’utopia che non dice il suo nome
Veniamo al dunque: il capitalismo non è forse l’ideologia economica, politica, filosofica, dominante che consiste in una attività di predazione del vivente, trasformandosi in una accumulazione di ricchezze a profitto dei detentori di capitali? D’accordo, per molti altri (sulla stessa stregua di quanto si sostiene per la democrazia) si dirà che è il meno peggio di tutti i sistemi, quindi il solo possibile. È però una formula che tradisce una lucidità perversa, che si trova perlopiù sulla bocca di chi gode del sistema e a cui giova pietrificarlo. Anche qui emerge un altro paradosso o il paradosso che nutre quelli già indicati: è rarissimo se non impossibile udire qualcuno che sostenga decisamente e fieramente il proprio attaccamento ideologico ed affettivo al sistema capitalista. Ci si dirà liberali, centristi, progressisti, socialdemocratici, socioliberali, conservatori, ma mai dichiaratamente capitalisti. E quindi qui c’è un’utopia (prima ancora che un’ideologia) che non dice o non ha il coraggio di dire il suo nome.
E perché? Per rispondere è meglio appellarsi a uno storico e sociologo che ha studiato a fondo questo tema e ha dato analisi convincenti (v. Pierre Ronsavallon: Le capitalisme utopique, histoire de l’idée de marché, Le Seuil, 1999): “La società di mercato rinvia alla prospettiva di una società civile autoregolata, grazie alla quale si ritiene che il confronto degli interessi porti ad una “armonia” che né la politica né la morale riescono a realizzare. Essa si oppone perciò alle teorie del contratto sociale che implicano una organizzazione volontaristica del rapporto sociale. Da qui chiaramente la nozione di capitalismo utopico”. In altri termini: l’utopia capitalistica punta sulla massimizzazione degli interessi particolari che genera (partorisce) – si sostiene – una società armoniosa, regolata dalla mano invisibile del mercato. Che è anche una sorta di teologia del capitalismo. E forse anche per questo, con tanta fede, finiamo per essere tutti, in qualche modo, capitalisti (v. un libro che ho qui già citato più volte: Denis Colombi, Pourquoi sommes-nous capitalistes (malgré nous)? Payot, 2022).
La democrazia liberale e il sol dell’avvenire
La realtà cui conduce quell’utopia è però diversa. Non conduce a una società armoniosa, ma a una società con crescente ineguaglianza sociale ed economica. Tanto da mettere in pericolo anche la democrazia. Perché (sottolinea Ghiringhelli citando Rodotà) “quando diventano difficili i tempi della solidarietà lo diventano pure per la democrazia”. E aggiunge: ”E se la democrazia liberale si dimostra incapace di operare nei fatti per un po’ più di equità e di giustizia sociale, ecco allora avanzare l’alternativa della “nuova democrazia”, quella illiberale, quella dell’identità di stirpe, quella del vanto nazionalista, quella del fuori gli altri, quella che promette un futuro radioso.” Quella. insomma, dei “cachistrocratici”, che comandano e stabiliscono l’agenda politica nazionale, anche alla vigilia delle prossime elezioni, irretendo gli altri concorrenti.
La realtà è che senza il potere pubblico che tenta sempre di aggiustare qualche squilibrio sia per mantenersi in sella, sia per ottenere un minimo di coesione sociale, sia soprattutto per proteggere la proprietà privata e con essa la borghesia; senza quel potere pubblico, comunque capitalisticamente esecrabile, il sistema (o quell’utopia), dopo più di quarant’anni di crisi e di fallimenti successivi, di calo continuo della fiducia (nelle istituzioni politiche, bancarie, mediatiche, giudiziarie) sarebbe già morto e sepolto.
Forse non ci si sta però accorgendo che cresce tremenda e inarrestabile una contraddizione fondamentale alla logica di crescita. La quale è il nucleo che tiene sempre in vita, pressoché incontrastata e sempre venerata, a differenza di tutte le altre utopie (cristianesimo, socialismo, anarchismo) l’utopia del capitalismo. Quella contraddizione può essere tanto l’”asineria che imperversa “ o “gli idioti che governano ciechi” (riprendendo Ghiringhelli) quanto il continuare ad essere così ottusi o avidi da non capire che salvare il pianeta è molto più economico che annientarlo. E annientarlo sarebbe anche la fine della redditizia utopia capitalistica.
Ma allora, ci si chiederà, come ai tempi in cui non si voleva una politica sociale per non salvare il capitalismo, non è che si finirebbe per diventare felicemente marxiani, con il capitalismo che si distrugge da solo? Già, il sol dell’avvenire.
Nell’immagine: la mano neanche troppo invisibile del mercato