Perché nessuno pensa più alla
rivoluzione e a cambiare il sistema – mentre la rivoluzione industriale oggi digitale ci rivoluziona incessantemente la vita, silenziosamente e a nostra insaputa – e ci adattiamo senza fiatare? Perché è diventato impossibile persino immaginare una semplice
riforma (no, non la rivoluzione!) e una democratizzazione della tecnica e del capitalismo? Perché rivoluzionari e riformisti sono stati entrambi sconfitti dal tecno-capitale e la lotta di classe l’hanno vinta i capitalisti e oggi i gigacapitalisti?
Molte le cause, ma una – che non prendiamo mai in considerazione, tanto siamo ormai assuefatti, pur essendo la causa fondamentale – la ricorda il filosofo Umberto Galimberti nel suo ultimo e magistrale saggio appena uscito per Feltrinelli: L’etica del viandante. Scrive Galimberti – in questa che è una sua ulteriore riflessione sul tema della tecnica e del suo potere sulla vita dell’uomo – e rimandiamo a Psiche e techne, del 1999: “A questo punto nessuna rivoluzione è possibile perché sia il servo sia il signore [cioè, sia il proletario sia il padrone, sia i ceti medi sia il borghese, la destra, per ovvie ragioni e purtroppo anche la sinistra] non sono più la controparte l’uno dell’altro, ma entrambi si trovano dalla stessa parte e hanno come controparte la razionalità del sistema economico e tecnico, che nessuno dei due mette in questione, perché non si dà altro mondo che non sia quello dischiuso da questa razionalità, che essendo da entrambi condivisa, annulla le differenze”.
E cos’è questa razionalità che ci impedisce di immaginare alternative e che ha accomunato per tutto il Novecento sia il capitalismo sia il comunismo? È quella razionalità che parte con la rivoluzione scientifica del Seicento, con Galilei e con Bacone (scientia est potentia), con la tecnica che è poi l’essenza di questa scienza e che diventa sempre più volontà di potenza, perché si basa sul sempre di più (produzione e consumo), sull’accrescimento illimitato di sé (del mercato e del sistema tecnico e del profitto), dentro la quale razionalità siamo sempre più integrati; e che arriva appunto ad essere la nostra unica forma mentis, la nostra omologante way of life, tutto riducendo a merce e a profitto ma soprattutto a calcolo e a ricerca di una presunta efficienza sul modello delle macchine.
E non è infatti questa razionalità che pre-determina il sistema produttivo e quello consumativo (oggi con gli algoritmi predittivi che ci portano a desiderare di consumare altro e di più – con il messaggio: potrebbe interessarti anche questo)? Non è questa razionalità che pre-determina i sistemi scolastici e formativi, dove si devono acquisire solo le competenze a fare (efficienza e calcolo e profitto, ancora) e mai invece la conoscenza per capire perché lo facciamo e perché lo dobbiamo fare solo in quel modo, senza cercare alternative, senza soprattutto capire che questa razionalità è del tutto irrazionale – vedi crisi climatica, che il sistema e i capitalisti e gli industriali e la finanza cercano invece di nasconderci? E non siamo forse diventati tutti capitale umano e risorse umane, cioè calcolabili, efficientabili, quindi organizzabili-comandabili-sorvegliabili?
Razionalità ed efficienza, ma sulla base di quale scopo e di quale obiettivo? Nessuno, perché questa razionalità – continua Galimberti – non ha etica, è assolutamente avalutativa e non si propone alcuno scopo, ma persegue solo il proprio accrescimento. E noi umani, quanto più facciamo nostra – ci identifichiamo – con questa razionalità, sempre meno abbiamo scopi umani e sempre più siamo sussunti in questa razionalità, dove la tecnica non è più un mezzo, come era nel passato, nella libera disponibilità degli umani, ma il suo accrescimento (e quello del capitale) è diventato il nostro unico scopo/fine di vita. E abbiamo fatto nostro il mantra neoliberale del non ci sono alternative; e quello tecnologico per cui l’innovazione non si può e non si deve fermare – e se intanto muore la Terra, nulla ci deve importare e preoccupare, basta aspettare messianicamente che più tecnologia risolva i problemi creati dalla tecnologia (e dal capitale) e prima ancora dalla razionalità del tutto irrazionale che la domina.
E infatti, al punto in cui siamo arrivati, “le leggi di questa razionalità non appaiono più oppressive [come invece sono, perché modellizzano in modo eterodiretto i nostri comportamenti affinché siano funzionali al sistema, a prescindere dalla nostra consapevolezza e dalla nostra responsabilità verso le future generazioni], perché a opprimere” – a negare cioè la soggettività e la volontà e l’immaginazione che un tempo erano umane – “non è una volontà umana, ma una razionalità impersonale che, quando è interiorizzata indistintamente da tutti non viene neppure vissuta come opprimente, esattamente come i pesci nel mare non sentono la pressione dell’acqua. Ne consegue” – continua Galimberti – “che le leggi che presiedono a questa razionalità, per l’universalità con cui si impongono, appaiono non dissimili dalle leggi di natura […]”. E invece, non sono leggi di natura, anche se il sistema tecnico e capitalista – che vive e fa profitti grazie a questa razionalità – cerca di farcelo credere in tutti i modi, facendo ad esempio sembrare naturale ciò che in realtà è del tutto artificiale – esempio: il termine di ecosistema digitale, dimenticando che gli ecosistemi naturali cercano l’equilibrio, mentre quelli digitali producono incessantemente squilibrio.
La tecnica (e il capitalismo) dunque funziona e ci fa funzionare secondo le proprie logiche illogiche di accrescimento illimitato. E davanti a questa razionalità, l’etica – che era forma e senso dell’agire in vista di un obiettivo – diventa impotente. Predomina il fare per il fare, ed è “una pura produzione di risultati”. E la tecnica “non è più un mezzo, ma un mondo”, cioè “la tecnica si è sostituita all’uomo, che ormai può scegliere solo all’interno delle possibilità che la tecnica rende disponibili” – e oggi siamo al machine learning, all’intelligenza artificiale che significano la totale alienazione e reificazione dell’uomo.
L’unica etica possibile, scrive allora Galimberti, è quella del viandante. Che si oppone al dominio sulla Terra perseguito dall’antropocentrismo (l’uomo appunto come signore e dominatore della Terra – qualcosa in realtà di antico e si riguardi Genesi), antropocentrismo che si conclude non troppo paradossalmente – essendo l’effetto della ragione strumentale – con l’annullamento totale dell’uomo stesso, ridotto appunto a mezzo al servizio della tecnica (e del capitalismo), vero soggetto della storia in quella età della tecnica (Galimberti) che noi chiamiamo Tecnocene. Una razionalità “la cui diffusione all’intero mondo equivale alla fine della biosfera”. Ci serve dunque passare dall’antropocentrismo al biocentrismo, come lo chiama Galimberti, capace di creare una etica planetaria “dove non l’uomo ma la vita della Terra diventi la misura ultima di tutte le cose”.
Un libro filosofico, forse non sempre facile e di cui ci siamo limitati a richiamare alcuni dei moltissimi spunti di riflessione. Ma assolutamente da leggere e rileggere, senza fretta, domani, dopodomani e dopo ancora, se vogliamo davvero capire chi siamo (uomini o macchine?) e dove siamo arrivati nella storia umana. Un invito che rivolgiamo soprattutto ai giovani, essendo Galimberti uno degli ultimi grandi saggi rimasti accanto a noi.
Nell’immagine: Umberto Galimberti