Due giudizi americani riassumono in buona parte il profilo di Giorgio Napolitano. Il primo: “E’ il mio comunista preferito”, disse di lui Henry Kissinger. Il secondo: “Ecco re Giorgio”, scrisse il New York Times. Ed entrambi i pareri contrariarono sia a sinistra che a destra.
Per non pochi compagni, il complimento dell’ex segretario di Stato americano – che tra l’altro aveva sostenuto fattivamente il golpe fascista di Pinochet che in Cile eliminò Salvador Allende – confermava i peggiori sospetti sulle ‘deviazioni’ di un personaggio troppo cangiante e che ormai aveva poco a che fare con le truppe di ‘bandiera rossa’. Il secondo, in cui si riferiva anche alla “sua sovrana capacità di salvare la democrazia”, irritò invece una destra italiana che gli rimproverò sempre di aver superato i confini del suo ruolo di garante, per imporsi come protagonista attivo della politica nazionale.
Valutazioni contrapposte di un uomo che aveva a lungo servito il PCI dopo essere stato, giovanissimo durante il ‘ventennio’, iscritto alla gioventù universitaria fascista, non proprio un’eccezione per diversi futuri dirigenti del partito (Ingrao, l’esempio più noto). Ma è in quella traiettoria, apprezzata o meno, che si colloca l’approdo del brillante giurista campano al ruolo di statista nell’Italia repubblicana. E del “primatista” che fu in politica: primo comunista ad ottenere il visto per gli Stati Uniti, il primo nel partito a cercare un rapporto meno conflittuale con i socialisti per superare la storica scissione di Livorno, il primo “rosso” ad essere eletto presidente della Repubblica, e ancora il primo che un’intera classe politica – in ginocchio a causa della propria inettitudine e del proprio fallimento – praticamente implorò di farsi rieleggere per un secondo settennato, fino ad allora un inedito nelle vicende del dopoguerra.
Non che il rappresentante della destra del PCI comunista, convinto della sua scelta ideologica non lo fosse mai stato. Scelto da Palmiro Togliatti fra i futuri dirigenti del più forte partito della sinistra rivoluzionaria in Europa, Giorgio Napolitano condivise (1956) anche il sostegno all’intervento armato sovietico nell’Ungheria in rivolta contro l’URSS, affermando che l’attacco al comunismo era l’espressione di un inaccettabile indebolimento del campo sovietico nello scontro (pur pacifico, almeno in Europa) con l’Occidente capitalista. Posizione per la quale, più tardi, fece abbondante e tormentata autocritica. Era del resto, anche in quella prima fase di convinzioni poi smentite, un allievo di un altro Giorgio: il Giorgio Amendola, ex partigiano che aveva conosciuto il carcere mussoliniano, un padre democratico-liberale aggredito e pestato sul Lungotevere dalle squadracce fasciste, l’Amendola che aveva coniugato l’idea comunista a quella della moderazione tattica e programmatica. L’allievo Napolitano si spinse ben oltre. Tanto che un suo fedele ex consigliere diplomatico confessa oggi: “Non osai mai chiedergli se avesse creduto davvero di essere comunista”.
Ora qualcuno ha scovato, per definirne la posizione, l’aggettivo ‘atarassico’, stato di sereno distacco una volta compiute con convinzione le proprie scelte di vita. In realtà, a lungo uomo di confine, Giorgio Napolitano maturò negli anni una convinzione che così definì: “Il punto naturale d’arrivo del nostro comunismo non può essere che il campo progressista” (in sostanza socialdemocratico): e ancora non era nato l’euro-comunismo di Enrico Berlinguer (chi lo ricorda ancora?), la convinzione che fosse preferibile la protezione della NATO rispetto a quella del Patto di Varsavia (bestemmia per i pacifisti anti-atlantici odierni), e la ricerca di larghe intese anche con il centro democristiano (poi diventato passeggero ‘Compromesso storico’ anche contro il terrorismo brigatista) che la “lezione cilena” aveva impartito ai movimenti della sinistra più progressista.
Fu proprio Berlinguer (preferito a Napolitano nella successione a Longo alla segreteria del partito) il suo principale antagonista interno. Berlinguer non lo emarginò, gli attribuì incarichi ancora importanti a livello parlamentare e di rappresentanza del partito (soprattutto in politica estera), ma di Napolitano contrastò la linea del “migliorismo”: in realtà una sorta di dileggio da parte di chi riteneva che si dovesse procedere sulla strada rivoluzionaria del rovesciamento del modello di sfruttamento capitalistico e non su quella di un pragmatico ma semplicistico e inattuabile “miglioramento” del sistema. Altra peculiarità di Giorgio Napolitano, il tentato avvicinamento fra PCI e PS craxiano, in nome di una sinistra capace di ritrovare unità e alleanza: il futuro “King George” arrivò persino, in una infuocata assemblea della direzione, a criticare il discorso di Berlinguer sulla “questione morale” (bersaglio principale i socialisti), denunciandone addirittura sull’Unità, quotidiano del PCI, la sostanza settaria e il pericolo di un autolesionistico isolamento. Dirà la Storia se in tutto questo (approdo social-democratico e rischio di autolesionismo) non abbia avuto ragione.
La rottura definitiva anche del futuro capo dello Stato con Bettino Craxi arrivò inevitabilmente nella stagione di “Mani Pulite” e della conferma della diffusa corruzione della politica. Anche perché nel suo famoso intervento parlamentare in difesa del finanziamento illecito dei partiti (“siamo tutti colpevoli”), il leader socialista al tramonto, in Aula si rivolse proprio a Napolitano, chiedendosi e chiedendogli se, anche come ministro degli interni, non si fosse mai accorto dei finanziamenti arrivati ai comunisti dai partiti fratelli del blocco sovietico. Ma ormai Giorgio Napolitano, agli interessi di bottega, anteponeva lo Stato e l’Europa. Figura sempre più istituzionale, affrancato, anche secondo molti rivali, dalle sue radici ideologiche. Per cui, quasi inevitabilmente, è il suo nome che venne proposto quando, nel maggio 2006, la sinistra ebbe i numeri per segnalare con successo la sua candidatura e la possibilità di avere un suo presidente della Repubblica. E la sua prima tappa ufficiale fu a Ventotene, l’isola da dove Spinelli e Rossi avevano lanciato il loro manifesto per l’unità europea.
Fra tangentopoli, progressive fragilità sociali ed economiche (2006, inizio della crisi finanziaria partita dagli Stati Uniti), fine prematura di troppi governi, nemmeno per lui furono anni agevoli. In particolare, fece molta fatica ad accettare l’anti-politica arrivata con i ‘vaffa’ di Grillo e dei Cinque Stelle, che arrivarono a chiederne le dimissioni. E quando nel 2013 gli chiesero cosa ne pensasse del boom elettorale dei pentastellati – quelli della prima ora, apparentemente lontani dalla “normalizzazione” arrivata non molti anni dopo – rispose irritato: “Quale boom? Per me esiste solo il boom economico”.
Tuttavia la sua autorità prevalse. Fin quando, nel 2015, un parlamento che non era riuscito a trovargli un successore in cinque votazioni consecutive (compreso il siluramento della candidatura di Romano Prodi proprio per mano dei famosi 101 contrari voti scagliati in gran segreto dall’interno del PD) si rivolse ancora a lui, ormai ultraottantenne, supplicandolo e ottenendone il bis, prima rielezione di un presidente repubblicano. Un terremoto, anche per il durissimo, indimenticabile discorso che Giorgio Napolitano rivolse a deputati e senatori, apparentemente stregati e convinti della sua tirata d’orecchi. Accusati, gli onorevoli, di “colpevoli omissioni e inadempienze”, di incapacità di dialogare per il bene del paese, e di aver portato il paese sull’orlo del baratro. Interrotto dai continui insistiti applausi (grillini esclusi) con cui la stessa assemblea bersaglio dell’implacabile attacco presidenziale benediva quella inesorabile lezione. Supremamente irreale, roba da mega-seduta psicoanalitica. “Ma che questi vostri applausi non si trasformino in auto-assoluzione”, sibilò Napolitano.
Applausi scroscianti pure da parte di Silvio Berlusconi e del suo PDL, anche se nel novembre 2011, dopo un vertice UE a Nizza (quello dei sorrisini di Merkel-Sarkozy), summit che aveva denunciato l’insostenibile pesantezza del debito italiano provocato dalla politica finanziaria del governo, convinse prima il cavaliere alle dimissioni (offesa mai dimenticata a destra), e poi il parlamento ad accettare un nuovo governo guidato da un tecnico, Mario Monti (forzatura nemmeno troppo apprezzata dal centro-sinistra, secondo i sondaggi in grado di imporsi in votazioni anticipate). Mettiamoci anche le accuse rivoltegli da chi lo ha considerato un attivo sostenitore della guerra contro Gheddafi (a cui Berlusconi aveva baciato le mani), e avrete quella miscela di rabbia e autentiche oscenità vomitate durante la sua agonia sui social, e da cui persino Fratelli d’Italia ha preso ufficialmente le distanze. Anche se poi il messaggio di cordoglio meno appassionato è venuto naturalmente proprio da Giorgia Meloni, che ancora cinque anni fa, solitaria e baldanzosa leader dell’unica opposizione alla lunga stagione dei governi non eletti, se ne uscì con parole infuocate: “Il lavoro di Giorgio Napolitano non ha fatto bene all’Italia; a lui piace un paese in cui i cittadini contano poco; fa parte di un’élite che in Europa ritiene che il popolo sia bue”. Deriva del dibattito politico nazionale che lo stesso Napolitano aveva previsto e denunciato con largo ma inascoltato anticipo. Forse anche per questa testarda e infausta sordità, oltre che per le fatiche dell’età avanzata, decise di anticipare la sua uscita di scena: aveva capito che la classe politica, non ascoltando la sua supplica e i suoi ammonimenti, si era già ampiamente auto-assolta e affrontava i nodi del Paese con la solita inconsistenza.
Confermata, del resto, dal fatto che anche al suo successore Sergio Mattarella tocca affrontare un secondo mandato. Ulteriore paralisi istituzionale dovuta stavolta soprattutto ai pasticci e alle incoerenze di Matteo Salvini, il ‘faso tutto mi’ affondato nei suoi dilettantistici giochi di potere e nella sua grossolana incapacità. Fino al primo governo eletto dopo un decennio. Quello della destra-destra, portata a Palazzo Chigi da un corpo elettorale (sempre più disaffezionato alle urne) deluso e irritato. Poche volte si era rivisto Giorgio Napolitano al suo scranno di senatore a vita. Sicuramente preoccupato delle derive messe in atto, soprattutto in fatto di diritti, dal post-fascismo. Ma, chissà, forse sollevato per non dover essere lui, il “comunista più liberale”, a dover affrontare dal colle del Quirinale un nuovo che sa troppo di vecchio.