I conflitti irrisolti per incapacità o cecità, per calcolo o irragionevole certezza di avere infine il sopravvento, inseguono molto a lungo i loro responsabili politici; ma a pagare sono le popolazioni innocenti, travolte a ritmi incalzanti dalla violenza delle armi. Ce lo insegna la Storia, e lo scontro israelo-palestinese, che dura da numerosi decenni, ne è ancora una volta tragica testimonianza. Soprattutto oggi, mentre assistiamo a una straordinaria, inimmaginabile escalation. Con decine di vittime israeliane. Imprevista e inedita per potenza, mezzi, tattica militare. E imprevedibile nei suoi esiti finali.
Siamo infatti al più massiccio attacco di Hamas contro lo Stato ebraico. Per l’impressionante numero di razzi e missili lanciati, addirittura migliaia. Ma ancor più per le sue modalità, assolutamente inedite. Israele si è ritrovato il nemico in casa. Un nemico preparato, organizzato Non era mai accaduto che ‘commando’ palestinesi riuscissero a penetrare da Gaza, così facilmente e in profondità, utilizzando anche deltaplani, sul territorio israeliano: entrando praticamente senza ostacoli nei centri abitati, muovendosi con professionalità militare, ben armati, incontenibili, guidati da una regia accurata e da una precisa preparazione, uccidendo e sequestrando molti civili (un centinaio i morti, stando ai primi bilanci), tenendoli per ore prigionieri nelle loro abitazioni, e catturando anche diversi soldati nemici, esibiti in foto e filmati mentre – storditi, feriti e a terra – vengono trascinati ancora vivi dagli assalitori. Militi israeliani che, da quando Sharon decise l’evacuazione della città nel 2005, sono appostati permanentemente attorno all’agglomerato palestinese (una bomba demografica con i suoi circa 2 milioni di abitanti) per isolarla completamente, ma che evidentemente non riescono a sigillare. Tanto più durante una festa importante come il Sukkot (per ricordare la traversata del deserto in attesa di entrare nella terra promessa), con vacanze e diversi soldati in licenza. Così lo Stato ebraico si è confrontato con l’orrore.
E’ vera guerra. Israele sotto shock, per il tipo di vulnerabilità e di insicurezza che lo pervade oggi, in un susseguirsi di notizie finora nemmeno pensabili. E probabilmente con molti palestinesi esultanti per quella che può essere vissuta come una risposta ai tanti torti subiti, alla repressione, all’occupazione dei Territori a ovest del fiume Giordano, e nella parte araba di Gerusalemme. “Tempesta Al Aqsa”, l’hanno chiamata i dirigenti di Hamas, con riferimento alla spianata delle moschee, secondo luogo santo dell’Islam, ma anche parte superiore del grande tempio ebraico distrutto dai romani e di cui rimangono le vestigia del Muro del pianto. L’estrema destra religiosa partecipe della maggioranza di Benjamin Netanyahu vorrebbe prender possesso della spianata, annullando gli accordi vigenti, che ne vietano le visite e le preghiere agli ebrei.
Si può facilmente immaginare, mentre vengono richiamati migliaia di riservisti, quale sarà la rappresaglia dello Stato ebraico. Se furono dure, addirittura definite spropositate quelle della lunga sequenza del passato, stavolta sarà pure peggio. Neppure si può escludere un’invasione terrestre della cosiddetta Striscia, per “bonificarla” e tentare di risolvere ciò che in quasi vent’anni non gli è riuscito: sradicare l’organizzazione politico-militare di Hamas ma anche di altri ‘satelliti’ della centrale islamista. Comunque sarà altro sangue, altre vittime, altre distruzioni.
Appare quasi superfluo chiedersi per l’ennesima volta di chi sia la responsabilità immediata per quella che entrambe le parti definiscono ormai un conflitto armato vero e proprio, con i capi di Hamas che ne enfatizzano la portata, parlando di “momento eroico”, chiedendo a tutti i palestinesi che posseggono un’arma di uscire di casa. Tentativo di ribellione collettiva e militare che porterebbe a uno scontro totale. Passaggio in rassegna delle cause superflue, talmente sono profonde, e più volte evocate, le radici anche storiche e mai rimosse di un dramma che negli ultimi anni e assai colpevolmente le cancellerie dell’Occidente (soprattutto gli Stati Uniti, in particolare la pazzesca presidenza Trump) hanno tolto o derubricato dall’agenda internazionale, sperando che semplicemente siano la forza militare di una parte nonché la stanchezza e la rassegnazione dell’altra a porre un rimedio in effetti impossibile se affidato unicamente a una formula tanto aleatoria. Il tempo aiuta a rimarginare ferite di guai già consumati, non a risolvere una terribile tragedia in corso.
Ci si deve invece chiedere perché il “partito di Allah” abbia deciso di ri-passare proprio ora all’azione; e, come riesca a sprigionare una simile forza di fuoco contro i centri abitati israeliani. Una spiegazione dunque che vada oltre alla durezza del confronto registrato nelle ultime settimane. Che ovviamente ha il suo peso: che si tratti delle pretese israeliane su Al Aksa (dove secondo la tradizione Maometto si salì al cielo; oppure del recente pesantissimo blitz terrestre e aereo di Israele contro Jenin, che i palestinesi considerano ormai “città martire”, e che è diventata base e rappresentanza della crescita islamista nella Cisgiordania occupata, un tempo “controllata” da laici di Fatah e dell’OLP; o ancora si tratti dell’aumento e dell’aggressività dei coloni che irrompono impunemente nei centri palestinesi, in quella mappatura imposta dagli israeliani e che ha trasformato i Territori in un insieme di bandustan semi-isolati e tipici dell’ “apartheid”, terribile definizione comunque usata da diverse organizzazioni umanitarie, compresa l’israeliana B’Tselem; infine, c’è la contesa interna palestinese, con Hamas in espansione e invece gli eredi di Arafat (guidati dal contestato e ultra-ottantenne Abu Mazen) sempre meno riconosciuti dalla popolazione della West Bank, causa corruzione, intrallazzi, incapacità gestionale, pochezza di progettualità politica, e leadership screditata anche dal fatto che la permanenza della sua approssimativa organizzazione amministrazione è spesso frutto della collaborazione con l’occupante, corroborata da un’economia palestinese sempre più dipendente da Israele.
Ma non c’è “solo” tutto questo. Vi sono con tutta evidenza anche chiare logiche internazionali a mettere le polveri all’offensiva di Hamas. Sta cambiando il quadro medio-orientale, in una intersecazione di novità e strategie, interessi e possibili sbocchi che per gli islamisti non sono necessariamente delle buone notizie. Gli “Accordi di Abramo” che hanno aperto relazioni ufficiali e reciproco riconoscimento fra monarchie arabe e Stato ebraico; il sempre più evidente riavvicinamento (partecipe la regia americana) fra Israele e Arabia Saudita; da parte di quest’ultima l’imprevista riapertura del dialogo con l’Iran degli ayatollah, il principale alleato (e fornitore militare) di Hamas, che nonostante sia circondato, può ottenere quanto serve alla sua guerra grazie alle forniture provenienti dai gruppi “fratelli”, ben presenti e attivi nel confinante Sinai egiziano, dove operano anche residue formazioni o emulatori dell’Isis, quello Stato Islamico che in realtà non è mai del tutto scomparso dalla scena, innanzitutto africana, ma pure nel teatro medio-orientale. C’è addirittura l’ipotesi che in questo complicatissimo mosaico possa infine inserirsi un tentativo di pace regionale, che per Hamas sarebbe letale.
È perciò anche in questa mappa internazionale cangiante che si inserisce l’offensiva degli islamisti, oltre evocate ragioni e cause interne alla contesa Palestina storica, sfida continua fra attentati e ritorsioni, e nella totale assenza di dialogo, nel vuoto assoluto di progetti politici, e ora anche una capacità offensiva di Hamas che ha sorpreso. Sotto quest’ultimo aspetto, si parla, anche esagerando, di ‘un nuovo Kippur’, evocando quello del 1973, quando l’attacco congiunto degli eserciti e dei carri armati della Siria sulle alture del Golan occupato, e dell’Egitto nel Sinai perso nella guerra dei sei giorni, colsero impreparato l’esercito di Israele, che nei primissimi giorni rischiò di soccombere nella parte nord-orientale sotto l’impeto dei tanks di Assad padre. In verità, un raffronto accettabile solo in minima parte. In effetti, più di un monito dei servizi segreti militari, con echi sulla stampa internazionale, circolava da tempo in Israele sui piani della centrale islamista dopo i numerosi attacchi israeliani in replica agli attentati palestinesi e ai massicci interventi dell’esercito israeliano in Cisgiordania.
Moniti inascoltati, é oggi l’accusa che arriva da più parti nei confronti di Netanyahu, alleato e volontario prigioniero di una estrema destra nazional-religiosa, davvero il peggio che potesse arrivare al governo, per i suoi eccessi razzisti e per i progetti di annessione di territori palestinesi. Cosi si torna allo schema – scientemente voluto o no – alla micidiale, quasi “complice” interdipendenza strategica attribuita ai due contendenti: ad Hamas che ritiene necessario usare le armi per imporsi sull’OLP e su nuove formazioni islamico-radicali che potrebbero contestarne il primato da Jenin a Hebron; e “utili” anche al leader israeliano, il quale lascia che Hamas si organizzi, attende le sue iniziative, poi risponde con la forza e come si addice a un indispensabile garante della sicurezza e della patria. Tattica incendiaria. Ma che il capo del Likhud utilizzerà comunque nuovamente, visto oltretutto che una straordinaria replica militare può servigli nel tentativo di ricucire, o sminuire in una fase di necessaria unità nazionale, le lacerazioni che hanno approfondito il fossato fra le componenti laica e ortodossa del suo paese, mettendo a rischio (come s’è sottolineato durante le forti contestazioni al progetto di riforma della giustizia) le sue istituzioni democratiche. È lo scontro fra quelle che lo scorso anno l’ex capo dello Stato, Reuven Rivlin, definì con grande preoccupazione le nuove “tribù di Israele”. Tribù in lotta. Partita in cui il premier si gioca anche il suo congelato destino giudiziario. E da cui Hamas cerca evidentemente di trarre profitto.