Il premio per la pace, incoraggiamento al movimento di protesta contro la dittatura degli ayatollah; un’altra sedicenne in coma dopo l’aggressione della polizia morale; ma intanto la teocrazia di Teheran beneficia dell’interessato soccorso di Russia e Cina
Non è certamente un caso se ora gli unici Nobel per la pace iraniani sono due donne. Vent’anni fa Shirin Ebadi, fondatrice del Centro per i diritti umani di Teheran, che ha poi pagato con l’esilio; oggi, Narges Mohammadi, l’attivista che dell’organizzazione ha assunto la pericolosa eredità, e che dopo dodici arresti ha accumulato trentun anni di carcere (oggi è dietro le sbarre nella famigerata prigione di Evin), con la pena aggiuntiva di 154 frustate (provate a contare una a una quelle scudisciate, anche solo per cercare di intuire il dolore e l’umiliazione di quella tortura). Riconoscimenti assegnati entrambi nei quarantaquattro anni di oscurantista dittatura teocratica, tanti ne sono trascorsi dalla vittoriosa “rivoluzione islamica” di Khomeini, inizialmente celebrata persino da una certa sinistra europea.
Delle donne iraniane (schiacciate in un ruolo di subalternità, in abiti che ne devono occultare il corpo, in hijab che consentono solo di vedere una parte del volto) l’Accademia norvegese che da più di un secolo assegna l’onorificenza, ha voluto sottolineare determinazione e coraggio. Quell’audacia – e viene sottolineato nella motivazione – che le ha viste protagoniste, anche se giovanissime, nel movimento di rivolta popolare partito dopo l’assassinio, per mano della polizia morale, della giovane curda Masha Amini, colpevole di indossare il velo in maniera inadeguata. Protesta che si è autodefinita nell’invocazione “Donna, Vita, Libertà”: già insanguinata in un anno da oltre cinquecento morti, migliaia di arresti, decine di condanne a morte. E due giorni fa, mentre a Oslo si preparava l’annuncio, il violento copione si è probabilmente ripetuto nella capitale: una sedicenne (anche lei curda) in coma all’ospedale, secondo le compagne di scuola aggredita in metropolitana dagli sgherri di turno.
Con gli occhi puntati quasi esclusivamente sulla tragedia ucraina, quelle ragazze le abbiamo colpevolmente dimenticate o perse di vista, come del resto quelle afghane soggiogate dai Talebani che ne impediscono anche la frequentazione scolastica dopo i dodici anni di età. Anche loro, chi le ricorda ancora? Eppure, i pochi reportages indipendenti che escono dagli ex confini persiani segnalano che continua la resistenza contro il clero padrone di una nazione che fu anche antico impero e culla di cultura. Continua sotto la cenere di una repressione feroce. Continua con metodi meno spettacolari. Continua nonostante le preoccupazioni di una impietosa crisi economica. Continua con il ripristino rigido dell’obbligatorietà del velo, che nella fase più diffusa della contestazione, i signori delle moschee avevano annunciato di voler abolire.
E la resistenza sottotraccia continua – fatto ampiamente trascurato – anche nel momento in cui altre potenze dittatoriali assegnano al regime coranico una credibilità e un ruolo internazionali che sembravano fiaccati, se non del tutto persi, nei vicoli stretti della contestata presenza militare in Irak, delle sanzioni occidentali, delle difficili ambizioni di poter vincere la sfida con la maggioranza islamico-sunnita nell’umma (comunità) musulmana , dell’incerto progetto di creare quella “mezza luna sciita” che partendo da Teheran, dovrebbe scendere verso la Siria in mano alauita, verso il disastrato Libano in parte controllato da Hezbollah, giù fino alla striscia di Gaza governata da Hamas. Rianimata, la teocrazia, dalla cooptazione nel “mondo nuovo”, nell’alleanza del cosiddetto “sud globale” che alcune potenze, o semi-potenze, da Pechino a Mosca, lanciano come sfida all’Occidente.
C’è la Cina, grande acquirente del petrolio iraniano che non troverebbe altrimenti altri importanti mercati. C’è la Russia, rifornita dei droni ‘made in Iran” che vengono lanciati sugli obiettivi soprattutto civili dell’Ucraina invasa. C’è addirittura l’Arabia Saudita, che incoraggiata dalla regia americana, si è avvicinata a Israele procedendo verso il possibile riconoscimento ufficiale dello Stato ebraico, maha al contempo deciso un accordo tattico con l’Iran ristabilendo col ‘nemico religioso’ un rapporto che ne consolida le ambizioni regionali. E in qualche modo lo rafforza.
E’ anche contro tutto questo, contro questo “soccorso internazionale” a guida illiberale, impegnato nell’ aiuto alla “guida suprema” Alì Khamenei, che l’opposizione pacifica iraniana deve resistere. Obiettivo quasi impossibile. La dittatura clericale non è sola, ma in “gradevole” compagnia di chi fa strame dello Stato di diritto; convinta, non a torto, che la critica occidentale abbia già dato il massimo, e di più non potrà fare. Come insegna anche la lezione afghana.
Vista la situazione,cosa può fare in concreto un altro Nobel per la pace, a parte il suo valore simbolico e di incoraggiamento alle donne bersagliate dalla repressione iraniana? Poco o nulla. Così, questo Premio per la pace all’Iran, è indirettamente anche la confessione della nostra impotenza. Come altro definire una speranza affidata quasi esclusivamente al coraggio personale e disperato di chi si è giustamente voluto onorare?