Una tragicommedia corale di umana disperazione
A partire dal 9 ottobre le prime due stagioni della serie “The White Lotus”, in prima visione su RSI LA1
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A partire dal 9 ottobre le prime due stagioni della serie “The White Lotus”, in prima visione su RSI LA1
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A partire dal 9 ottobre le prime due stagioni della serie “The White Lotus”, in prima visione su RSI LA1
C’era una volta “Love Boat”. Sotto l’egida di quella vecchia volpe di Aaron Spelling, il celebre serial ha raccontato, a cavallo tra gli anni 70 e 80, le vicissitudini romantico-sentimentali di ricchi vacanzieri a bordo di una nave da crociera; l’equipaggio come centro di gravità più o meno fisso, attorno al quale ruotava una rosa pressoché infinita di guest star. “White Lotus” nasce in un contesto completamente diverso (pensata in origine come miniserie, poi riconvertita in forma antologica alla luce del successo di pubblico e critica), ma parte da premesse non dissimili. Perché in fondo, come insegnano decenni di Cinema e tv (dai Vanzina a Chevy Chase, dai cosiddetti spiaggiarelli a “Fantasy Island”), quale sfondo migliore delle agognate vacanze per mettere alla berlina usi e costumi di una società ed evidenziarne le contraddizioni? Non è forse durante la finestra di svago per eccellenza, quel fugace momento in cui i codici comportamentali alla base della quotidianità vengono a cadere, che l’individuo rischia di rivelare la propria natura?
Premesse tanto semplici, in effetti, da rasentare la banalità: un resort di lusso (della fittizia catena eponima), uno sfondo da cartolina (le Hawaii nella prima stagione, la Sicilia nella seconda), un facoltoso gruppo di ospiti, uno staff pronto ad accoglierli, una misteriosa morte in apertura e un pugno di episodi per raccontarne a ritroso l’antefatto. Nessuna novità di rilievo, verrebbe da dire, se non fosse per l’affilatissima penna di Mike White.
Noto più che altro come caratterista ma già autore di bizzarrie mainstream (“School of Rock”) e delizie indie (“Super Nacho”, “Year of the Dog”), White firma qui il suo capolavoro. Curioso come un entomologo e preciso come un chirurgo, il creatore di “White Lotus” scava nella contemporaneità con sguardo attento e divertito, cinico ma allo stesso tempo empatico. Ecco dunque che in una cornice all’apparenza abusata s’intreccia un’impressionante quantità di linee narrative, destinate a restituire nel loro insieme un quadro collettivo articolato, attuale e genuinamente inclusivo (non calibrato sulla base di una fredda bilancia etnico-sessuale, quindi, ma vero affresco umano capace di andare al di là della somma delle singole parti e di abbracciare l’odierna società occidentale nel suo complesso).
Nel corso di una settimana (tanto è il tempo diegetico di ogni stagione), facciamo la conoscenza di un variegato serraglio di personaggi che è anche specchio (deformante, satirico, ma disperatamente ancorato al reale) dell’Uomo contemporaneo e, di conseguenza, di noi fruitori. Madri, padri, mogli, mariti, figli, amici, vedove e amanti – tutti disfunzionali – dei quali verrà messo in piazza ogni più intimo segreto, ogni più recondita fragilità, appagando da un lato l’impulso voyeuristico che spinge a curiosare nel buco della serratura altrui, offrendo dall’altro una spalla su cui piangere o un complice con cui ridere, in entrambi i casi immagine riflessa del telespettatore stesso, convinto – a torto – che il bersaglio della barzelletta sia qualcun altro.
Indispensabile alla riuscita dell’operazione l’apporto di un cast corale in grado di fare la differenza: da una Daddario lontana dalla propria comfort zone a una Sydney Sweeney già allieva di “Euphoria” e ormai proiettata verso l’empireo di Hollywood; da navigati veterani come Imperioli o Zahn a sorprese nate in sordina come Murray Bartlett; fino ad arrivare a lei, quella Jennifer Coolidge unico denominatore comune tra le due stagioni, in un ruolo che la riporta all’attenzione del grande pubblico dopo il cameo-exploit di “American Pie”, che aveva sì sdoganato un acronimo oggi arcinoto ma a cui non era seguita una vera carriera. In “White Lotus”, l’original MILF si lancia in un’audace performance tanto autoreferenziale da divenire parodia di sé stessa, ritratto sul filo della caricatura di una donna disperata, sul cui volto deformato dalla chirurgia è possibile leggere tutta la solitudine di chi, a dispetto del conto in banca, non è mai riuscito ad adattarsi alla vita.
La scelta di ambientare le vicende in un ceto privilegiato, infatti, non è mera concessione al glamour. Dietro la corazza di contanti, carte di credito e vestiti griffati, i protagonisti di “White Lotus” sono indifesi come e più di chiunque altro; eterni bambini cresciuti nell’agio e impreparati a fronteggiare le imponderabili difficoltà dell’età adulta. E proprio nello scarto tra lo sfarzo del setting e la pochezza delle persone che lo abitano s’innesta una sana riflessione sulla lotta di classe, concetto cardine che permea in filigrana tutta la narrazione.
In poche ore, “White Lotus” affronta dinamiche relazionali (rapporti famigliari, coniugali, sessuali) e istanze sociali (appropriazione culturale, ruoli di genere) tanto contemporanee quanto universali, rimanendo di rado in superficie e impreziosendo il tutto con una patina di sferzante humour nero. In apertura si accennava con un po’ di malizia a “Love Boat”, ma a proposito di “White Lotus” rischia di essere più calzante il paragone con “Six Feet Under”, indimenticata perla catodica che agli albori dello scripted drama HBO dimostrava come la soap potesse diventare arte a tutti gli effetti. Grazie a Mike White, l’emittente via cavo torna in qualche modo alle origini e si riconferma sopraffina interprete del presente, letto e raccontato senza pregiudizi, senza calare lezioni, con lucidità e spirito critico impermeabile alle mode. E sì, a volte pure con un pizzico di sadismo. In fondo, ci piace anche per questo.
Nell’immagine: un fotogramma del trailer
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