Jon Fosse, Nobel per la Letteratura 2023: «Ho scritto sette libri per liberarmi di me»
Intervista realizzata nel 2021 da «la Lettura» del CdS. Il grande drammaturgo ha riabbracciato la narrativa. E non si è più fermato
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Intervista realizzata nel 2021 da «la Lettura» del CdS. Il grande drammaturgo ha riabbracciato la narrativa. E non si è più fermato
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Intervista realizzata nel 2021 da «la Lettura» del CdS. Il grande drammaturgo ha riabbracciato la narrativa. E non si è più fermato
Una musica bianca. Fluisce lento e avvolgente, mistico, nel paesaggio di neve della costa norvegese nei giorni dell’Avvento, L’altro nome di Jon Fosse. Un volume che raccoglie i primi due capitoli di un progetto narrativo di oltre 1.200 pagine, diviso in sette parti, scritto senza mai usare il punto. L’opera totale di un autore che ha girato il mondo come drammaturgo, ancora oggi tra i più rappresentati sulla scena internazionale, ogni anno indicato tra i favoriti per il Nobel, scrittore anche di racconti e testi per bambini, poeta, traduttore.
Il primo libro di questa Settologia, nella longlist del Booker International Prize 2020, esce ora in Italia da La nave di Teseo, tradotto da Margherita Podestà Heir. L’autore, nato nella regione dei fiordi, nel sudovest della Norvegia, residente per meriti letterari nell’edificio reale di Grotten, a Oslo, aveva annunciato l’impresa alla Buchmesse di Francoforte nell’ottobre 2019, poco dopo avere compiuto sessant’anni: «Un lavoro in cui confluiscono temi e modi di tutta la mia produzione, ma in una luce nuova».
Solitudine, vita e morte, Dio, il senso dell’arte e del tempo. Silenzi, ripetizioni, pause, flashback e contraddizioni in una storia con poca trama, spiazzante e insieme poetica. Il protagonista è un pittore di mezza età, Asle, vedovo, ex bevitore, con la sola amicizia di un vicino pescatore e di un altro Asle, anche lui pittore, anche lui isolato, ma ancora piegato dall’alcol.
Dalla Norvegia di Karl Ove Knausgård, di cui il drammaturgo è stato insegnante, un’altra opera fiume, anche se siamo a circa un quarto delle 4.145 pagine de La mia battaglia. E di segno opposto. Fosse, sebbene possa cogliersi qualche eco biografica, rifiuta ogni forma di autofiction. Per lui narrare è creare un universo altro, fatto di storia e ritmo, e in questo senso, pur abbracciando tutte le contraddizioni del vivere, la sua fiducia nella letteratura è molto forte: uno strumento d’indagine, anche se amara, irrisolta, sul senso ultimo delle cose. Lo scrittore parla con «la Lettura» dalla residenza di Oslo.
Come è nata la «Settologia»?
«Da vent’anni scrivevo solo per il teatro, così ho sentito l’esigenza di tornare alla narrativa. Nel 2014 ho pubblicato la raccolta di tre novelle interconnesse Trilogien (“Trilogia”). Poi, nell’estate del 2015, sono stato invitato dal mio traduttore giapponese nel Castello di Paul Claudel, nel sud della Francia. Faceva molto caldo, per fortuna mi diedero una stanza fresca e lì, sul letto, ho iniziato quella che sarebbe diventata la Settologia».
Da cosa è scaturito il cambiamento?
«Per seguire le rappresentazioni dei miei testi teatrali sono andato ovunque, dall’Europa a Tokyo, New York, L’Avana. Viaggiavo per almeno metà dell’anno. Così, a un certo punto, ho sentito il bisogno di fermarmi e sono tornato all’inizio: avevo coltivato la narrativa e la poesia già prima del mio debutto drammaturgico, nel 1992, con Qualcuno arriverà. Non sapevo dove mi avrebbe portato il romanzo, ma ho lasciato che la scrittura andasse».
Tanto da non usare il punto.
«Una scelta non prevista, è successo da sé, per non bloccare il flusso. Non pensavo neppure a un testo così lungo. Cercavo semplicemente una prosa lenta, un’opera a cui non servisse l’intensità drammatica del teatro, spesso forte come l’epifania di una poesia. Miravo a qualcosa in cui tutto potesse prendersi il suo tempo e scorrere in lunghi periodi. Calmare la mia scrittura, rilassarmi nella scrittura. Così smisi con il teatro, e smisi anche di bere. Poi, alla drammaturgia, sono comunque ritornato. D’altra parte ogni esperienza ha nutrito le altre».
In che modo?
«Quando iniziai con il teatro avevo già sperimentato nei racconti la tecnica di concentrare la drammaticità in una storia relativamente breve. Della poesia colsi il ritmo. Nei romanzi sono confluiti la capacità di sviluppare una situazione e di mantenere la coerenza lungo tutta la trama apprese dal teatro».
C’è qualcosa di autobiografico nei due Asle della «Settologia»?
«Sono stato anche io un bevitore. Da circa dieci anni non tocco più nulla, se non un bicchiere di rosso ogni tanto. Certo, può capitare di attingere a ciò che ho vissuto, di cui ho letto o sentito parlare. Ma nulla è autobiografico. Dal mio punto di vista, la letteratura è immaginazione. La sua essenza ha piuttosto a che fare con ciò che la separa dalla realtà, con la trasformazione della realtà, con la creazione di un universo fatto di forma e contenuto, che così, a sua volta, ti fa guardare la realtà in un modo nuovo».
Anche per questo, come nel teatro, adotta pochissimi nomi propri ma termini generici come Padre, Sorella…
«Uso i nomi propri se indispensabili a non creare confusione e, in ogni caso, simili e ricorrenti. La defunta moglie di uno degli Asle si chiama Ales. Lo ripeto, la mia fonte è l’immaginazione, che però non è fantasia, non è inventare. È una realtà molto concentrata, appunto trasformata. Quando scrivo, ascolto. Ascolto il silenzio e cerco di farlo parlare».
Uno degli Asle dice di avere improvvise visioni e che il senso della sua pittura è nel cercare di farle scomparire.
«In un certo senso capita anche a me. Come dicevo, non scrivo mai per parlare di me ma per liberarmene, allontanarmi. Da questo punto di vista, la scrittura somiglia al bere. Ecco perché forse non ho mai scritto così tanto come dopo avere smesso con l’alcol. La letteratura può essere una forma di sopravvivenza, per me è stata di sicuro un modo per vivere».
La neve, il fiordo, l’acqua. Quanto conta il paesaggio nella sua scrittura?
«Molto, più di quanto ne sia io stesso consapevole. Sono legatissimo alla costa, al mare. Anche ora, nel centro di Oslo, la mia barca mi manca sempre».
Dei due Asle, uno si converte e trova Dio. La fede, la sua ricerca, rappresentano un tema ricorrente nelle prime due parti della «Settologia».
«Da giovane ero ateo. Poi proprio la scrittura, il chiedermi che cosa la determinasse, da dove nascesse, mi ha fatto uscire dal mio confortante ateismo. Ho iniziato a credere in ciò che può essere chiamato Dio. Ora, dopo un lungo viaggio, sono un cristiano praticante».
L’hanno paragonata a Ibsen e Beckett. Chi sono i suoi modelli?
«L’unica ragione per cui sono stato accostato a Ibsen credo sia la nostra comune provenienza. Da giovane invece mi sono molto concentrato su Beckett. Temevo persino che i miei lavori teatrali assomigliassero troppo ai suoi e decisi più o meno consapevolmente di ribellarmi, come un figlio al padre. Ma è difficile ancora oggi sbarazzarmi di una certa somiglianza. Qualcuno arriverà fu una reazione ad Aspettando Godot: di vicinanza e insieme distacco. Oltre a Beckett mi hanno influenzato il poeta austriaco Georg Trakl e lo scrittore norvegese Tarjei Vesaas».
Come stanno la letteratura e il teatro contemporanei?
«Non ho letto abbastanza narrativa d’oggi, ma ho la sensazione che il suo concentrarsi ad esempio sulle politiche dell’identità non sia vera letteratura. Quanto al teatro, per dieci, quindici anni molti registi hanno preferito basare le loro produzioni su romanzi o film, piuttosto che mettere in scena un testo drammaturgico o, se lo hanno fatto, hanno usato i classici, da trattare come si vuole. Ma questo rischia di essere distruttivo, sono certo che le drammaturgie contemporanee riprenderanno il loro posto».
Come sta vivendo il tempo del Covid?
«Negli ultimi anni ho condotto un’ esistenza ritirata, il virus non l’ha molto influenzata. Però mi manca viaggiare di tanto in tanto. Abbiamo un appartamento fuori Vienna e vorrei tornarci». La ricerca di un senso attraversa «L’altro nome», quasi un’opera metafisica. Il virus cambia la situazione? «Siamo più incerti e precari nel mondo. Ma d’altro canto siamo sempre stati mortali. Il senso della vita cambia di continuo, è in movimento. Come ogni significato. Come la buona letteratura».
Questa intervista è tratta da «la Lettura» #477 del 17 gennaio 2021
Nell’immagine: Jon Fosse
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