Un fiore per Sergio Endrigo
Un importante omaggio musicale in ricordo del cantautore istriano, a novant’anni dalla nascita, è previsto domenica alle 18.00 all’Auditorio Stelio Molo di Lugano
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Un importante omaggio musicale in ricordo del cantautore istriano, a novant’anni dalla nascita, è previsto domenica alle 18.00 all’Auditorio Stelio Molo di Lugano
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Un gentiluomo, Sergio Endrigo lo era davvero: un gentil uomo. Di quelli rari e preziosi soprattutto se pensiamo all’odierno panorama della canzone e del mainstream musicale italiano, davvero povero e figlio di un analfabetismo preoccupante, musicale e non. Lo era per i modi, la modestia, la signorilità. E l’acume di pensiero che manifestava nella sua scrittura. Soprattutto per aver speso e incanalato energie e talento nella canzone, nella forma canzone. Che non era solo un mero esercizio di stile ma uno strumento per raccontare il proprio tempo in evoluzione. Sociale, politico, emotivo. Naturale quindi per lui preferire nutrirsi della compagnia di intellettuali e poeti piuttosto che abbracciare atteggiamenti divistici o sfacciatamente mondani. Intellettuali e poeti del calibro di Pasolini, Ungaretti, Rodari ma anche Vinicius de Moraes per intenderci. E con loro licenziare piccoli grandi capolavori che ancora oggi sono gemme splendenti.
Di Endrigo mi piace ricordare che non si definiva un cantante ma “un uomo che cantava” e in questa “sottile differenza semantica” trovo vi sia la cifra dell’uomo e dell’artista e cosa la canzone e la sua professione significassero. Anche per questo e per il momento storico in cui mosse i primi passi è considerato uno dei capisaldi dell’allora nascente canzone d’autore italiana, un fenomeno musicale, sociale e artistico tra i più significativi del secondo ‘900. C’era Genova con la cosiddetta “scuola” che muoveva i primi passi; c’era Milano sede dell’industria musicale ma anche teatro delle gesta di Jannacci e Gaber e soprattutto di quel Nanni Ricordi che ne intuì il talento. C’erano Modugno e un Guccini agli albori, senza scordare il lavoro profuso dai “Cantacronache”.
Endrigo il botto lo fa quasi subito, grazi e Nanni Ricordi che appunto ne intuisce e ne coccola il “genio”. Lo fa dopo anni di gavetta nei night. Lo fa con una canzone che ancora oggi è considerata la canzone d’amore per eccellenza: “Io che amo solo te”, ripresa negli anni da tutti, dalla Vanoni a Mina, da Paoli a Jannacci, dalla Mannoia a Chiara Civello e Chico Buarque (una versione commovente) . Un successo clamoroso che sempre negli anni ’60 replica anche a Sanremo con brani ormai in odore di leggenda. Lo vince del 1968 con “Canzone per te”, l’anno successivo è secondo con “Lontano dagli occhi” (recentemente reinterpretata televisivamente da un duo d’eccezione come Massimo Ranieri e Malika Ayane) e la medaglia di bronzo la conquista quello ancora successivo con “L’arca di Noè”. Come a dire che gli anni ’60 e i primi ‘70 non rappresentano solo una stagione fortunata. E la qualità della sua scrittura anche musicale lo conferma e confermerà anche dei decenni successivi.
L’amore, che ovviamente faceva parte del suo lessico, non si limitava alla rima con cuore. Nel suo primo disco “Sergio Endrigo” del 1962 appaiono canzoni quali “Via Broletto 34” ad esempio in cui, nel cuore della notte di Brera, si consuma un femminicidio. Il numero civico 34 non esiste, fidatevi, l’ho cercato senza successo pure io. Ma rimane la prima canzone d’autore che parla di un tema oggi purtroppo tragicamente attuale. Così come in “Teresa”, di qualche anno più tardi in cui l’amore per una donna non comporta il doverne verificare un precedente percorso amoroso.
All’epoca il testo provocò le ire e la censura della Rai perché era inimmaginabile che l’amata non fosse illibata. Ma di canzoni d’amore poco ortodosse Endrigo ne scrisse e cantò numerose manifestando una contemporaneità unica, una capacità di leggere il proprio tempo e i cambiamenti culturali e di costume come pochi.
Le sue canzoni, come scrissero, coltivavano come lui l‘understatement, con eleganza innata suscitavano emozioni piane, da cantare sottovoce, lontane dalla baraonda che oggi ci governa. Forse anche per questo che il Brasile lo adottò, tributandogli onore e gloria. Permettendogli di entrare in sintonia e dialogare con Vinicius de Moraes e Ungaretti che era stato professore di Lingua e letteratura italiana all’università di San Paolo, e aveva altresì tradotto poeti brasiliani contemporanei tra i quali appunto De Moraes. L’artista istriano “Era il più brasiliano dei cantautori italiani e il più italiano degli artisti brasiliani”. Infatti collaborò molto con loro, insieme a Sergio Bardotti e Luis Bacalov, storico sodale per lunga pezza, fino alla rottura per la contestata paternità da Oscar per la musica de “Il postino”, paternità di recente riconosciuta anche a Endrigo.
Tra il ‘69 e il ’73 pubblica due album straordinari: “La vita è arte dell’incontro” che vede canzoni e poesie anche recitate dal sommo poeta oltre che da De Moraes e Toquinho, e “L’arca” altro album rivoluzionario perché oltre ad esser collettivo si rivela esser un disco per bambini, con canzoni dedicate agli animali, originali e scritte da Vinicius de Moraes. Il successo clamoroso Endrigo lo raccoglie pochi anni dopo e sempre nel solco della canzone dedicata ai bambini, ma ricca di riflesisoni universali: “Ci vuole un fiore” con testi scritti da Gianni Rodari. E la canzone omonima si rivela altresì esser una tra prima canzone ecologiste a conferma dell’impegno e della sensibilità che Endrigo profondeva nella musica. Cosi come ritroviamo la sua vicinanza politica, sentimentale e umana a tematiche quali il dramma dell’emigrazione ne “Il treno che viene dal Sud”, il famoso “Treno del sole” che per cinquant’anni ha scaricato decine di migliaia di meridionali nelle città industriali del Nord. O la splendida “1947”, dedicata all’esodo istriano, una delle pagine più vergognose della storia italiana del dopoguerra che il giovane Sergio visse in prima persona con la madre e 300.000 Istriani e Dalmati sradicati dalla loro terra, dalle loro case.
Affermava di aver sempre votato comunista e di aver scritto non solo canzoni d’amore ma anche altre che citavano Che Guevara, il ’68, la Resistenza, la fine del Comunismo. La “schiena dritta” che da sempre mostrava nel rinunciare a compromessi artistici e non, lo accompagnerà tutta la vita. Anche negli anni bui, negli anni dell’oblio quando, messo ai margini, mostrò uno stile e una costante qualità compositiva spesso eccelsa senza piegarsi alle mode del momento o agli squallidi revival. Una coerenza, una signorilità e bontà d’animo che unitamente a un temperando schivo e riservato non lo aiutarono di certo in un ambito nel quale “l’hype”, l’immagine, l’apparenza acquisivano sempre maggior importanza. Ma per fortuna molti suoi colleghi continuarono e continuano a riproporre la sua canzone, la sua poesia ancor capace di emozionare nel tempo.
Nell’immagine: Sergio Endrigo in un recital live alla TSI nel 1981
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