In ricordo di Enzo Jannacci, a dieci anni dalla scomparsa – Un racconto (2)
Morire di camion
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Morire di camion
Di Enzo Jannacci, La Regione, 7.6.2008
Una cosa che mi sono sempre domandato è perché se tu una volta mandi a fare in culo un camionista, ti devi trovare di fronte per forza uno che mentre ti dice “Parlava con me capo?” ti solleva te e la Giulia.
Mai che ti trovi davanti uno normale, cioè con le dimensioni di uno normale, tipo me, sì insomma tipo residuato bellico, che con la Giulia, alla fine della fiera, puoi tirarlo anche sotto. Io però sono un vigliacco e un rischio così non ho mai avuto il coraggio di correrlo; perché mi sembra sempre impossibile che un camionista possa essere del secondo tipo, cioè tipo vaffanculo.
Invece lui, Vìttorìno Moretti, c’era come uomo e come camionista ed era contento in tutti e due i sensi. Come uomo si era ormai piazzato da solo senza dover dipendere dai parenti, con una moglie piccola che aveva sempre sorriso di tutto e un bambino che assomigliava soltanto a sua moglie, che tutto sommato sarebbe venuto su anche meglio di lui con tutti i casini in cui si era venuto a trovare in vita sua. Secondo: come camionista per il fatto che, intanto, aveva una voce da baritono che se ti azzardavi a tirargli un vaffanculo ti rispondeva come se fosse Duilio Loi, mentre invece era alto 1.58; e siccome era un attore nato, lui stava sul camion come se fosse sul palcoscenico, per cui era felice. Da due anni. E quel giorno che aveva ritirato la paga in ditta era ancora più felice, e si scoprì a recitare meglio del solito il monologo di Antonio.
Tutta questa roba qui sotto un sole che picchiava come una bestia da Bordighera a Ospedaletti dove erano 22 giorni che portava su e giù terra per il nuovo terrapieno-passeggiata-turisti malati di cuore- bambini anche della colonia. Da due anni.
Con un caldo della madonna, però era contento lo stesso. Anche degli hippies, sì insomma quelli lì con i vestiti strapelati, i capelli lunghi e i pantaloni da marinaio che sua moglie glieli aveva buttati via perché lui voleva portarli anche di domenica; cosa c’entra, se sono puliti, con una bella camicia bianca, sbarbato non faceva mica far figure; e lei gli aveva sorriso ancora una volta: “Ma cosa continui a ridere che non c’è niente da ridere”.
Cosa c’entra? Si capisce: una che è nata a Pieve Emanuele non può capire né il monologo di Antonio con i tempi e i ritmi giusti, né gli hippies che erano gli unici coi quali non doveva recitare. Così questo hippie lo aveva tirato su.
“Speak English?”
“Sì, domani mattina. Scespir, ma in italiano, se no pedalare caro il mio hippie” e questo qui a ridere anche lui.
“Se nasco un’altra volta faccio l’attore davvero però, altro che andar su e giù con questo camion di merda a portare terra per il terrapiena-passeggiata-turisti malati di cuore-bambini anche della colonia. Che se almeno ‘sta terra qui servisse per piantare patate …”
E l’hippie a ridere.
“Cosa ridi, scemo. C’ho già mia moglie che ride di te, di me, di Bruto, di Cesare, del camion. Dove vai?”
“Dove lei”, aveva risposto l’hippie questa volta in italiano, un po’ balordo, ma italiano.
“Vado a Ospedaletti per via del camion con la terra…”
“Va bene, vengo anch’io”.
“Ma questo qui è matto! Ohé, nano, guarda che dove vado io non c’è mica la spiaggia con gli ombrelloni e la piscina climatica. Ci siamo solo io, te e il camion, con un sole che spacca in due”.
“Va bene lo stesso, io guardare”.
Scemo, ma simpatico, l’hippie. Così, arrivati sul luogo, aveva cominciato a far manovra per scaricare il rimorchio e l’hippie lì a guardare.
“Guarda, guarda, visto il Vittorino? Adesso ti metto la ridotta, due botte al volante e una al rimorchio e ti piazzo il camioncino”.
Soltanto che il camion non recitava e così, forse perché il caldo lo soffrono anche i camion, si era lasciato scivolare lentamente, ma molto lentamente nel mare che lì era profondo almeno trenta metri. Sulle prime il Vittorino aveva cercato disperatamente di fermarlo, mettendo le sue povere spalle del tipo prendi su e porta a casa sotto l’avantreno, poi inebetito lo aveva guardato andare giù. Nel mare. Un camion. E lui di casini ne aveva già combinati ma era roba da poco, per via che era timido. Ma questa qui del camion era troppo grossa, con l’hippie lì a guardare, solo che non rideva più, piangeva.
“Piange. Cosa piangi a fare, pirla!” E così Vittorino Moretti si tolse la giacca, tirò fuori il portafoglio di marocchino con la foto e la busta paga e con la sua bella voce di baritono disse all’hippie: “Senta, sbarbato, lei non è italiano, ma questa qui è mia moglie, vede come ride – ecco – lei ride, anzi sorride, lei le dà questi da parte di suo marito casinista. Perché uno non può mica permettersi di perdere un camion come un imbecille…”
E – plam – si buttò dentro anche lui. Siccome erano trenta metri, due sub dei bagni Biblos ci misero quattro ore a tirarlo fuori. Loro però non piansero, anzi quasi ridevano, perché a sentirla raccontare da quel pirla lì, straniero, sembrava la storia del conte di Montecristo. Certo che se uno è così scemo da buttar via l’esistenza perché ha perso un camion pieno di terra…
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