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“Sono deluso dalla Svizzera ufficiale”
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Dick Marty rivela in un nuovo libro uscito in francese i meccanismi serbi di un "piano folle". Ancora oggi teme per la sua vita, ma la minaccia potrebbe provenire da estremisti di lingua albanese


Redazione
Redazione
“Sono deluso dalla Svizzera ufficiale”
• 15 Febbraio 2023 – Redazione

Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole

Intervista di Frédéric Koller, Le Temps

La vita di Dick Marty potrebbe essere raccontata in un romanzo, che ora si è trasformato in un thriller. Alla fine del 2020 l’ex parlamentare ticinese del PLR è stato posto sotto protezione speciale in Svizzera per ordine della polizia federale, senza ulteriori spiegazioni. Per cinque mesi la sua casa è stata trasformata in una sorta di bunker, notte e giorno, con il supporto addirittura dell’esercito. Autore di diverse indagini esplosive consegnate all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, Marty pare sia stato preso di mira da killer provenienti dai Balcani. 

Sembra inoltre che un vero e proprio piano per assassinarlo sia stato ordito in Serbia, senza dubbio con l’aiuto di persone vicine al governo di Belgrado. Tuttavia il sistema giudiziario svizzero e la polizia non hanno voluto indagare su questa minaccia. Peggio ancora, la polizia federale ha finito per “bruciare” la sua fonte, venendo incontro alle autorità serbe. 

È il suo rapporto del 2010 sui crimini dell’Esercito di liberazione del Kosovo (UCK) – comprese le accuse di traffico di organi di prigionieri serbi – che sarebbe all’origine delle minacce che ancora gravano sull’ex procuratore ticinese. Un rapporto che aveva portato all’apertura di una vera e propria indagine che a sua volta ha originato la creazione di un tribunale speciale con l’arresto dell’ex presidente del Kosovo, Hashim Thaçi. Sebbene Dick Marty non abbia nulla a che fare con l’applicazione di questo procedimento internazionale, si ritiene possa essere comunque il bersaglio di una possibile vendetta. È quanto spiega lo stesso Dick Marty in un libro appena pubblicato, in versione francese, presso le edizioni Favre di Ginevra. Lo abbiamo incontrato in un caffè di Lugano. 

Dick Marti, lei è in pericolo? 

Da anni so che mi potrebbe accadere qualcosa. Ma non ho mai vissuto nella paura. Certo, ho sofferto e soffro spesso nel vivere in una situazione che mi priva di libertà. 

Ma ritiene di essere ancora minacciato? 

La polizia federale la pensa così, e dunque sono tuttora sotto protezione. 

Da dove viene questa minaccia? 

È una situazione legata a quanto sta accadendo in Kosovo e in Albania. Il mio rapporto sul traffico di organi del 2010 ha suscitato inizialmente molte perplessità. Poi, nel 2014, un procuratore statunitense, supportato da 40 investigatori, ha confermato quasi tutti gli elementi del mio rapporto. Dopo vari colpi di scena un secondo procuratore ha infine incriminato Hashim Thaçi per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Costretto a dimettersi nel 2020, è stato trasferito all’Aia. Ciò ha scatenato le ire di alcuni ambienti di lingua albanese. La responsabilità di quell’arresto è stata attribuita a me, anche se non avevo nulla a che fare con questo procuratore americano. Per quanto mi riguarda, nel caso specifico, mi sono persino rifiutato di testimoniare.

Lei non è certo ben visto in quella regione.

Un ex primo ministro albanese mi ha definito come una sorta di Goebbels, e quello attuale mi accusa, all’ONU, di aver scritto un rapporto falso, ignorando nel contempo il lavoro dei procuratori americani. Questo crea un clima che può motivare gli ultranazionalisti ad agire.

Ci parli della protezione cui è stato sottoposto.

È stato davvero incredibile. Il 18 dicembre 2020 ho ricevuto una telefonata dal comandante della polizia cantonale che mi ha detto che dovevo essere messo immediatamente sotto massima protezione. Ho chiesto: “i Balcani?”. Ha risposto “sì”. Tutto a un tratto è scoppiato uno tsunami: all’improvviso avevamo poliziotti in casa, avevamo armi, giubbotti antiproiettile, granate, pistole, 24 ore al giorno. C’erano telecamere intorno alla casa,  è intervenuto anche l’esercito. La mia famiglia ha pagato un prezzo alto per tutto questo. 

Ma solo in seguito lei ha capito la vera natura della minaccia, che all’epoca non veniva dall’Albania… 

Ho saputo che un gruppo criminale di nazionalisti serbi radicalizzati, temendo che il processo contro Thaçi non sarebbe andato a buon fine, ha escogitato questo folle piano: uccidermi per far credere che fossero stati i kosovari e quindi screditarli agli occhi della comunità internazionale. Un informatore serbo noto alla polizia svizzera, ritenuto credibile dalla Procura federale, è stato la fonte della divulgazione di questo piano. Si tratta di una teoria plausibile, anche se per comprenderla appieno bisognerebbe inoltrarsi dietro le quinte della complessa politica serba. 

Solo dopo due anni, però, il sistema giudiziario svizzero è finalmente entrato in contatto con quello serbo.

Per quanto ne so c’è stato un contatto con gli agenti di polizia solo nell’aprile 2022. La cosa peggiore è che hanno commesso un errore che nemmeno un principiante dovrebbe fare, e che mi pare assolutamente incomprensibile. 

Cioè? 

Attraverso l’Interpol, la polizia federale si è rivolta alla polizia serba e ha rivelato il contenuto delle informazioni in suo possesso e quindi, indirettamente, la sua fonte. Era chiaro fin dall’inizio che erano coinvolte persone dei servizi segreti serbi. Hanno bruciato la fonte, che di conseguenza è poi stata messa sotto protezione in Svizzera. 

Nel libro lei non è certo tenero nemmeno con il procuratore incaricato dell’indagine.

Quando un pubblico ministero le dice: “So tutto quello che fa”, cosa significa? Io sono la vittima! 

Le cose si sono trascinate “per viltà o incompetenza”, scrive lei. 

Inizialmente ho chiesto al procuratore perché non avesse presentato una richiesta di assistenza giudiziaria alla Serbia. Ha risposto che gli sarebbe stato certamente detto di no. Ma chi avrebbe detto di no, ho ancora chiesto. Risposta: Il Dipartimento. Trattandosi di un reato politico, il Consiglio federale deve autorizzare l’apertura di un procedimento penale. Si è aspettato fino ad agosto per richiedere questa autorizzazione. Perché aspettare otto mesi? “Se pensi che ti verrà detto di no”, ho detto, “allora fatti dire di no. Così, se mi succede qualcosa, puoi sempre dire che ti è stata rifiutata la possibilità di aprire un’indagine”. Un anno dopo, lo stesso procuratore mi ha poi spiegato che lui stesso era contrario a una richiesta di rogatoria perché avrebbe dato all’imputato la possibilità di consultare il fascicolo. È molto, molto strano. 

Il suo caso è risolto per il Pubblico Ministero? 

Tecnicamente è in corso un procedimento penale. Ci sono prove concrete che qualcuno voleva uccidermi. Questo è già un crimine. Si tratta di un tentativo o di un atto preparatorio punibile. Sono stati fatti dei nomi. Non si può solo prendere consapevolezza del caso e poi non affrontare la minaccia. 

Eppure, ancora niente? 

Niente. I serbi hanno tutto l’interesse a dire che non è nulla. Non dimentichiamo che la Serbia fa parte dell'”Helvetistan” [un gruppo di Paesi rappresentato dalla Svizzera nel FMI, n.d.t.], quindi con loro abbiamo un rapporto speciale. Insomma, la Svizzera non vuole problemi tra Kosovo e Serbia. Berna avrebbe potuto fare un passo diplomatico spiegando ai serbi che ci sono prove e fonti credibili per dimostrare il loro coinvolgimento, e che se questo fosse stato reso pubblico, sarebbe stato dannoso per loro. E la questione poteva essere affrontata diplomaticamente senza che nessuno ne parlasse pubblicamente. 

Invece continuano a tenerla d’occhio…

A mio parere il pericolo oggi non viene più dalla parte serba, poiché nel frattempo, comunque, chi era implicato è stato smascherato, ma dalla parte albanese. Ed è un pericolo che incomberà finché il processo dell’Aia nei confronti di Thaçi non sarà concluso. Gli ex membri dell’UCK sono stati condannati a pene piuttosto pesanti per crimini di guerra. Dubito, tuttavia, che il processo a Thaçi si concluderà mai, perché nessuno nelle cancellerie occidentali ha interesse a condannarlo. 

“Ho l’impressione che quello che ho fatto non sia mai piaciuto alla Svizzera ufficiale”, scrive. Si definirebbe un “disilluso”? 

Diciamo che sono deluso. 

Ha la sensazione di non aver ricevuto il sostegno che il suo lavoro meritava? 

Non l’ho mai chiesto. Quando stavo indagando sulle prigioni segrete della CIA avevo chiesto informazioni al Consiglio federale. Samuel Schmid, allora, mi aveva risposto con un sorriso: “Non sappiamo nulla”. E poi aveva aggiunto: “Ci sono microfoni che passano attraverso le finestre”. Poi mi regalò un coltellino svizzero con inciso il suo nome e la cosa finì lì.

 La neutralità svizzera è sempre stata a favore degli Stati Uniti, dice lei. La Svizzera è al soldo di Washington? 

No. Ma siamo sempre stati orientati a loro favore, ed è una scelta che non critico. Quella che critico è l’ipocrisia. Diciamo che non ci schieriamo, mentre in realtà lo facciamo. Per me la neutralità è un mito che non ha più valore. 

Nel contesto della guerra in Ucraina, come giudica la neutralità? 

Ricordiamo che la neutralità non è stata una scelta della Svizzera. Ci è stata imposta. Quando si tratta di fare una scelta, si dovrebbe cercare di avere una politica etica. Sono contrario alla fornitura di armi da parte della Svizzera. Ma sono favorevole a un maggiore coinvolgimento della Svizzera nello sminamento, nella ricostruzione delle infrastrutture, nell’aiuto alla popolazione sofferente, nell’assistenza medica. 

Ma una politica etica non significa forse che la Svizzera deve stare dalla parte della democrazia? 

Quando sono in gioco dei valori, è giusto impegnarsi. Ma avremmo dovuto farlo anche in passato. Le sanzioni [contro la Russia, ndr] sono state condivise  perché ci sarebbe stato legittimamente il rischio che la Svizzera diventasse una piattaforma per l’elusione delle sanzioni stesse. Giusto, ma questo non significa che si debbano applicare tutte le sanzioni, senza esaminare in modo indipendente se hanno senso, se sono giustificate. Non ci devono essere automatismi. 

Lei dice che il caso Crypto è eccezionalmente grave e che la Svizzera ha fatto tutto il possibile per nasconderlo. Il Consiglio federale ha mentito? 

Ci sono due possibilità. O stanno mentendo, o questa è una repubblica delle banane. È possibile che i servizi segreti tedeschi e americani abbiano gestito per anni un’azienda in Svizzera che produce materiale altamente sensibile, che ogni volta che attraversa il confine deve essere esaminato dalla Seco? Metto in relazione questo caso con l’intero circo delle fughe di notizie dal Dipartimento degli Interni. Il fatto che un alto funzionario abbia un contatto così privilegiato con un giornalista è deplorevole. Ma non si tratta di un affare di Stato, non c’è alcun pericolo per il Paese. Queste informazioni sarebbero emerse comunque. Detto questo, il vero problema è il nostro rapporto con l’Europa. La paura dell’UDC, questa mancanza di coraggio nel parlare chiaramente delle sfide dell’Europa, mi fa impazzire. Stiamo danneggiando le generazioni future. 

L'”Homo politicus helveticus”, secondo lei, è come quello descritto da Cicerone: “Non negare niente a nessuno”. È questa la sua visione della politica svizzera? 

Sì.

Lei critica le multinazionali che economicamente e finanziariamente influenzano la società e i processi democratici attraverso il denaro. La finanza è il nemico? 

No, la colpa è della politica. Se non poniamo un freno, se non poniamo un limite, è chiaro che si svilupperanno. Ciò non mi impedisce di dire che questi conglomerati d’imprese sono una minaccia per la democrazia. Quello che sta accadendo nella tecnologia digitale, con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, che non è in mani pubbliche ma in mani private, è un pericolo enorme. Sono strumenti perfetti per la manipolazione dell’opinione pubblica. Indeboliscono la democrazia. Spetta allo Stato, alle istituzioni, reagire. 

Lei scrive: “I banchieri non solo godono dell’inazione sistemica nei loro confronti, ma hanno sempre esercitato una forte pressione sulla politica svizzera”. Sono le banche a dettare l’agenda politica? 

Quando ho iniziato a fare politica, mi è stato detto che l’ottavo consigliere federale si trova a Paradeplatz. Quando si è discusso dell’iniziativa per multinazionali responsabili, il Consiglio federale non ha mai accettato di riceverci. Il controprogetto presentato all’ultimo momento dalla signora Keller-Sutter è stato discusso con l’economia svizzera e le holding. Rappresentavamo più di 100 ONG, una parte importante della società civile, e avevamo raccolto 227.000 firme in cento giorni. Avrebbero potuto almeno prendersi la briga di riceverci. Questo è ciò che deploro. Alla fine, abbiamo avuto comunque la maggioranza davanti al popolo. 

Lei cita Gramsci, Camus, Hugo, Céline, Rousseau e, nella sua cerchia, viene talvolta chiamato “Marty il Rosso”. Si sente ancora un PLR? 

Il PLR ticinese è un partito molto popolare con una grande sensibilità sociale. Era il partito dei piccoli impiegati e degli operai. A Berna siamo stati in diversi con questo orientamento. Eravamo un’altra cosa. Oggi mi sa che siamo probabilmente inseriti nella lista delle specie in pericolo stilata dal WWF! 

Dick Marty, Sous haute protection, Ed. Favre, 2023
Nell’immagine: Dick Marty






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