Vite nascoste: il dramma dei bambini disabili in Kenya
L’emblematica e tristemente esemplare testimonianza di Fatimah, donna keniana che racconta della sua presunta “colpa” di avere una figlia disabile
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L’emblematica e tristemente esemplare testimonianza di Fatimah, donna keniana che racconta della sua presunta “colpa” di avere una figlia disabile
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L’emblematica e tristemente esemplare testimonianza di Fatimah, donna keniana che racconta della sua presunta “colpa” di avere una figlia disabile
Se della prima è impossibile non notarne la presenza – Fatimah è ormai all’ottavo mese di gravidanza –, la seconda potrebbe tranquillamente sfuggire ad uno sguardo più distratto. Il volto della piccola si intravede a malapena. Similmente, le altre parti del corpo. Il chitenge – telo colorato che le donne keniane usano anche per legare a sé i bambini – la copre integralmente. Fatimah potrebbe in effetti trasportare una qualsiasi mercanzia.
E invece, quel peso sulla schiena, ha un nome. Si chiama Pray. Ed è una vivace creatura di 8 anni. Forse un po’ grande per essere ancora portata, a peso morto, sulla schiena della mamma. In fatto è che Pray è completamente paralizzata.
Fatimah, come il 60% della popolazione di Nairobi, vive in un contesto informale. Un ambiente dove prevale l’ignoranza, la sporcizia e la violenza di ogni tipo. Parlare di disabilità, diversità e inclusione è una chimera e i pregiudizi sono diffusi. Complice il fatto che negli slum non esistono adeguati servizi di salute e riabilitazione che possano favorire l’inclusione sociale. Lo stigma è dunque fortissimo. Maltrattamenti, emarginazione e isolamento sono all’ordine del giorno. Chi ha bambini con disabilità, molte volte, li nasconde. Renderli invisibili sembra la soluzione migliore per sopravvivere.
Fatimah spiega che, nonostante Pray cominci a diventare pesante, preferisce camminare portandosela sulle spalle. Per lei l’uso dei matatu – forma di trasporto pubblico keniano – non sempre è concesso. Se sul piccolo bus si accorgono della presenza di Pray, le possono chiedere di scendere immediatamente. Questo sempre che le sia stato permesso di salire in precedenza. Anche qualora non sia l’autista ha farle presente la cosa, lo faranno gli altri passeggeri. I loro sguardi, i loro atteggiamenti e continui cambi di posto. “È l’ansia e la paura che muovendomi possa toccarli, per sbaglio, con mia figlia. Questo per loro sarebbe un insulto”, afferma Fatimah.
Tuttavia, Fatimah si ritiene una donna fortunata. Perlomeno ha un lavoro, dove può portare sua figlia. Cosa tutt’altro che scontata. Se muoversi con i figli appresso è piuttosto comune in un contesto come Nairobi, non lo è più dal momento in cui questi presentano una disabilità. A complicare ulteriormente le cose, il fatto che a casa da soli non li puoi lasciare. E raramente c’è qualcun altro pronto a prendersene cura.
In genere le madri sono lasciate sole dopo la scoperta della disabilità del figlio. Le famiglie si disgregano ed il primo ad andarsene è spesso il marito. Questo perché in Kenya ci sono ancora molte credenze e superstizioni riguardo la disabilità e poca conoscenza delle reali cause alla base delle patologie. Ad essere ritenuta responsabile è generalmente la donna, incolpata di avere sbagliato qualcosa durante la gravidanza. La disabilità viene vista in quest’ottica come una punizione. Una maledizione mandata da Dio. Un peccato del quale vergognarsi.
“Anche i miei vicini pensano che Pray sia maledetta. Non la vogliono nemmeno vedere.”
L’isolamento arriva dalla propria famiglia, ma anche dai vicini e dalla società in senso lato. La vita in comunità e l’aiuto reciproco cambiano completamente quando c’è di mezzo una persona disabile.
Se Pray è intoccabile, così lo sono le sue cose. Fatimah mi spiega come le vicine, adesso che è al termine della gravidanza, l’aiutano a fare il bucato. Le possono lavare e stendere i suoi vestiti, ma non laveranno mai né tantomeno stenderanno quelli di Pray.
“Sai quando devo andare in bagno come faccio? Nessuno me la tiene, nemmeno per 2 minuti, il tempo di fare pipì. Dunque, ci vado con lei, mi accovaccio e me la stendo sulle gambe”.
Fatimah non è la sola. Come lei, tante altre, chissà quante, visto che dati ufficiali non ne esistono.
Le stime sostengono che a Nairobi c’è una popolazione di 300.000 bambini e bambine con disabilità. L’80% di questi vive negli insediamenti informali. La poca prevenzione, le condizioni in cui le mamme sono costrette a partorire e gli incidenti domestici sono le principali cause cui è dovuta l’alta incidenza della disabilità infantile.
“Molte di noi non hanno le risorse sufficienti per farsi seguire durante la gravidanza. Partoriamo in casa oppure in piccole cliniche locali dove non ci sono gli strumenti adatti.”
Alla carenza di strutture sanitarie adeguate e centri di riabilitazione si somma la scarsa preparazione del personale e la mancanza di procedure “disability friendly”. Elementi che si ritrovano anche nel sistema educativo e che portano all’elevata discriminazione e stigmatizzazione sociale.
E rimangono solamente le spalle delle donne a farsi carico della situazione.
Nell’immagine: Kenia, bambini disabili
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