Pelé, il lustrascarpe che fu re e indifferente dio

Pelé, il lustrascarpe che fu re e indifferente dio

È morto “O Rey”, amico di tutti gli amici della magica sfera, crudeli dittatori compresi


Libano Zanolari
Libano Zanolari
Pelé, il lustrascarpe che fu re e...

«Ho dato più io al mio popolo, all’intero Brasile, di tutti i governi e di tutti gli uomini politici»: è il testamento spirituale di Edson Arantes do Nascimento, nato il 23 ottobre 1940 a Três Coraçoes (Tre Cuori) nel profondo e poverissimo Nord, proclamato dall’ONU ‘Patrimonio storico-sportivo dell’Umanità’, fatto Sir dalla Regina d’Inghilterra: per la sua straordinaria abilità nel giocare ‘l’ineffabile’ palla, così definita da Rinpoche, l’Illuminato tibetano, per la sua empatia.

Quella palla che affascina l’intero mondo e in particolare il Brasile, quella palla di cui lui era domatore eccezionale: con entrambi i piedi, con la testa, malgrado la statura non eccelsa, 1m73, con il tacco, con qualsiasi parte del corpo, come usano gli artisti da circo, i prestidigitatori; quella palla che toccata da Pelé si fa talmente sublime da far dimenticare ogni bruttura, ogni mistificazione di chi la usa per glorificare se stesso, per nascondere le proprie malefatte.

«Sono un calciatore, Dio mi ha dato questo dono, non mi occupo di politica». Si, ma quando la ‘politica’ si trasforma in una Dittatura che gli storici definiscono «più antidemocratica, più feroce di quella argentina e cilena”? Il generale Emílio Garrastazu Médici, capo della giunta militare autrice del ‘golpe’ brasiliano, cerca e trova facilmente l’identificazione con il Dio delle masse brasiliane, quelle masse che lui, arbitrariamente, tortura e manda a morte con il sorriso sulle labbra. Médici vuole Pelé al suo fianco nel pieno della repressione dei suoi ex miseri fratelli, quando il Paese celebra la sua rete numero 1000, segnata su rigore contro il Vasco da Gama, il 19 dicembre 1969.

La prima l’aveva segnata il 7 settembre 1956 con la maglia del Santos, a 15 anni. Nella grande città, nel grande club, Pelé è portato dal nazionale Brito, che ha udito di quel ragazzo che segna in media tre reti nelle squadre dei campionati giovanili, figlio di quel ‘Dondinho’ che era diventato professionista nell’Atletico Mineiro, e che era finito subito dopo in miseria in seguito a un grave infortunio al ginocchio. ‘Dondinho’, formidabile colpitore di testa che detiene tuttora il primato in materia (cinque reti segnate in una sola partita) trova alloggio in una favela con la moglie Celeste che fa di tutto per impedire al figlio di giocare a calcio. Quando vede il padre in lacrime per la finale persa contro l’Uruguay nel 1950, Pelé, che ha dieci anni, gli dice: «non piangere, quella coppa te la porto a casa io». Ciò che accadrà otto anni dopo.

Il papà si fa aiutare da ‘Bico’, così era chiamato Pelé al Nord, nei suoi poveri lavori, lustrascarpe e addetto alle latrine dello stadio. A scuola i ragazzi della città si fanno beffe di quel compagno spaesato e semianalfabeta, che si trasforma solo quando ha una palla fra i piedi. Quella palla che il padre non gli può comprare e che sostituisce in palleggi interminabili nel cortile con un calzino riempito di carta e erbacce, ma soprattutto con un mango.

Il ragazzo stravede per il portiere del Vasco da Gama, Bilé, che Edson pronuncia male: i suoi compagni gli appioppano per scherno il nomignolo Pelé. Offeso, chiede ai genitori di abbandonare la città e di ritornare al Nord. Ma il Santos gli promette a breve un posto in prima squadra e lo convince a restare.

A 17 anni e 239 giorni è in Nazionale ai mondiali del 1958 in Svezia. Segna subito una rete contro il Galles, poi addirittura tre in semifinale contro la grande Francia di Fontaine e Kopa, due in finale contro la Svezia di Liedholm, la prima scavalcando il difensore con un pallonetto. Le ragazze svedesi, che non avevano mai visto un uomo nero, gli toccano le braccia e le guance per vedere se le dita si macchiano di pece. Pelé, grazie al nuovo specchio magico, la televisione, entra nelle case dei ricchi, negli angoli più remoti del mondo. Gli altri si radunano al bar.

Avevo fatto il diavolo a quattro per farmi portare dal papà al ‘Garbellini’ di Madonna di Tirano, da Zalende, 3 chilometri abbondanti a piedi. La mamma non voleva, nelle bettole di un tempo se ne vedevano e sentivano di tutti i colori. Avevo undici anni. Poco dopo, nella lezione di religione in cui si parlava del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, avevo detto al mio compagno di banco che Pelé l’avrei messo sullo stesso livello dello Spirito Santo. La voce era circolata. Senza citarmi il Don aveva detto che l’adorazione degli idoli era un peccato mortale.

Il Brasile era in festa: l’umiliazione del 1950, la sconfitta in finale contro l’Uruguay degli oriundi ticinesi Ghiggia e Maspoli era cancellata, lavata con un colpo di spugna la terribile definizione del drammaturgo Nelson Rodriguez: il Brasile perde (perse anche in Svizzera nel 1954) perché soffre del complesso del vira-cata, del cane da strada, del cane senza padrone. Ma Rodriguez sottintende qualcosa di ben piú grave: il Brasile ha il complesso del meticciato, del cane bastardo.

Complesso che, grazie a Pelé, sembra scomparire del tutto quattro anni dopo in Cile, quando il Brasile, malgrado un infortunio che ferma O’Rey dopo la prima partita, si ripete grazie al suo sostituto, Amarildo.

Dopodiché la Nazionale infila una serie di partite mediocri, e rimedia una figuraccia ai Mondiali inglesi del 1966, anche perché Pelé, sistematicamente picchiato dai difensori bulgari e portoghesi, è costretto all’abbandono. La Federazione diretta da Havelange e la Dittatura sono inquieti. I disastri della Nazionale rischiano di mettere in causa il Potere. Il fine giustifica i mezzi: la squadra è affidata al suo più lucido critico, il giornalista João Saldanha, membro del Partito Comunista, fuorilegge, ex allenatore del Botafogo. Saldanha osa l’impensabile: l’esclusione di Pelé, anche perché O’ Rey non è in grande forma, e memore delle botte ricevute, in un primo tempo aveva espresso dubbi sul suo ritorno ai Mondiali. Saldanha, che sotto la Dittatura ha perso molti compagni, fa di tutto per mettere in disparte l’idolo delle folle apparso raggiante al fianco del generale Médici.

Gli toglie il mitico numero 10, e gli da il 9 da centravanti che Pelé non gradisce. Lo picchierebbero ancora di più. Scova un oculista compiacente che certifica uno strabismo, un calo della vista.

La Dittatura non ci sta, fa pressioni, e quando Saldanha dichiara che lui non sceglie i ministri del Governo, e di conseguenza nessuno deve scegliere i suoi giocatori, Havelange lo licenzia a due mesi dal mondiale del 1970 in Messico.

Al suo posto arriva Zagalo, ex compagno di squadra di Pelé, nel mezzo di una disputa per noi incomprensibile, in Brasile cruciale: Saldanha voleva superare la ‘ginga’, il gioco istintivo derivato dalla capoeria, la simbolica danza-lotta marziale degli schiavi africani. Basta con il calcio istintivo, improvvisato, ‘bailado’. Organizzazione e schema, razionalità europea. Zagalo, ex ala tattica, trova il compromesso che mette d’accordo tutti, in primo luogo i giocatori.

Pelé segna una rete contro la Cecoslovacchia, due contro la Romania, una in finale con un poderoso stacco di testa, oltre a due magnifici assist nel 4 a 1 contro l’Italia. La sua stella brilla piú di prima; il governo gli toglie il veto di abbandonare il Brasile, va a New York nei ‘Cosmos’ dove la squadra per poter lasciare gli spogliatoi deve preparare più di venti maglie da consegnare agli avversari. Chiude a 37 anni nel 1977 giocando un tempo con il ‘Cosmos’ e uno con il ‘Santos’.

Le Roi est mort, vive le Roi. In un ultimo, commovente documentario-testamento prodotto da Netflix (nel quale appare anche Sergio Ostinelli) il Dio del calcio piange ricordando i suoi trascorsi e chiude con un breve concerto di percussioni: le mani battono sulla cassetta da lustrascarpe di Papà ‘Dondinho’. Mamma Celeste l’aveva conservata di nascosto e alla morte del padre, nel 1996, l’aveva consegnata al ricchissimo figlio con una sola moneta dentro: la prima guadagnata da Edson (dal nome dell’inventore Edison) Arantes do Nascimento, detto ‘Bico’, poi Pelé.

Forse per questo, per il terrore di ripiombare nella miseria, O’Rey aveva sempre rifiutato di schierarsi, di inimicarsi i potenti, anche quando avrebbe dovuto farlo. il sospetto che lui, che si è sempre battuto contro la droga, che per questo aveva contestato Maradona (non certo per i figli sparsi in tutto il mondo…), avesse dato alle masse l’oppio, non lo ha mai sfiorato. Di quello aveva bisogno la povera gente, in mancanza del pane.

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