Smontare la ‘macchina del tempo’
Il futuro delle giovani generazioni appare strettamente collegato alle istanze dello sviluppo capitalistico e sembra che tutto questo venga dato semplicemente per scontato e ineluttabile
Filtra per rubrica
Filtra per autore/trice
Il futuro delle giovani generazioni appare strettamente collegato alle istanze dello sviluppo capitalistico e sembra che tutto questo venga dato semplicemente per scontato e ineluttabile
• – Lelio Demichelis
A vent’anni dalla scomparsa di Giorgio Gaber - "Quando è moda è moda", di Fabrizio Quadranti
• – Redazione
A vent’anni dalla scomparsa di Giorgio Gaber - "Lo shampoo", di Bruno Brughera
• – Redazione
La Val Verzasca ha stretto in un corale abbraccio Khaleda e la figlioletta Satayesh, in fuga dall’Afghanistan, ma ora la legge vuole siano espulse dal nostro paese
• – Roberto Antonini
Stampa / Pdf
• – Franco Cavani
A vent’anni dalla scomparsa di Giorgio Gaber - "L’illogica allegria", di Massimiliano Herber
• – Redazione
A vent’anni dalla scomparsa di Giorgio Gaber - "Il conformista", di Sara Rossi Guidicelli
• – Redazione
Di luoghi dismessi, fatiscenti, occupati, abbattuti, nascosti, illegali, ed altro ancora. Di Bruno Brughera
• – Redazione
A vent’anni dalla scomparsa di Giorgio Gaber - "La libertà", di Andrea Ghiringhelli
• – Redazione
A vent’anni dalla scomparsa di Giorgio Gaber - "Destra-Sinistra", di Erika Zippilli Ceppi
• – Redazione
Il futuro delle giovani generazioni appare strettamente collegato alle istanze dello sviluppo capitalistico e sembra che tutto questo venga dato semplicemente per scontato e ineluttabile
È una macchina che non ci permette certo di viaggiare nel tempo, ma che produce per noi e che ci impone – accelerandoli incessantemente – i tempi di vita, di lavoro, di consumo, di navigazione in rete – perché quanto più tempo siamo connessi più dati produciamo quindi creiamo maggiore profitto per le imprese del Big Data. Una macchina di produzione, organizzazione, comando e controllo del tempo e dei tempi individuali e sociali chiamata ieri fordismo-taylorismo e poi lean production e poi just in time e poi anche just in sequence e oggi digitale.
Una macchina la cui benzina è la razionalità strumentale/calcolante-industriale che ci domina da tre secoli a questa parte, dall’inizio della rivoluzione industriale. Una macchina che sfida incessantemente Dio – per chi crede – che impiegò sei giorni per creare il mondo e il settimo giorno si riposò. E quindi lavorava ancora in termini di giornate di lavoro, mentre il tecno-capitalismo ragiona e organizza e comanda e sorveglia il nostro tempo di produzione, di consumo, di produzione di dati e quindi di vita al centesimo di secondo (come nel taylorismo digitale dell’Industria 4.0), ha cancellato la differenza tra tempo di vita e tempo di lavoro e oggi lavoriamo-consumiamo-produciamo dati h24 e sette giorni su sette.
Ovvero, per il tecno-capitalismo – la macchina che produce (organizza, comanda e sorveglia) il tempo e il suo uso – Dio era assolutamente inefficiente e il settimo giorno di riposo è oggi considerato un tempo morto, cioè non produttivo di qualcosa e soprattutto non di valorizzazione tecno-capitalista. Dio non era un capitalista (almeno lui…), mentre il nostro dio è diventato oggi appunto il capitalismo, che è una religione dal culto incessante – lo scriveva già un secolo fa il filosofo Walter Benjamin (1892-1940) – e oggi il nostro dio e la nostra religione, dal culto ancora più incessante è il tecno-capitalismo, la rete, il digitale, i social: tutte fabbriche per produrre profitto attraverso la divisione industriale del lavoro e l’intensificazione dei tempi-ciclo.
Immaginare di ridurre gli orari di lavoro è quindi una assoluta ingenuità se il sistema tecnico – ancora il digitale/rete – consente al capitalismo di farci lavorare/produrre/consumare/generare dati appunto h24, spesso anche gratis. La tecnica permette cioè al capitale da un lato di allungare la giornata lavorativa e dall’altro, ma contestualmente, di intensificare, con le macchine, i tempi e i ritmi di lavoro di questa giornata ormai senza una fine.
Una volta, organizzatrici del tempo erano le religioni monoteistiche – ma lo sono tuttora in gran parte, pensiamo al Natale appena trascorso; anche se poi pure il Natale è diventato soprattutto una festa comandata capitalistica e lo si aspetta un po’ come il Black Friday. Poi – richiamando lo storico francese Jacques Le Goff (1924-2014) – è iniziato il conflitto tra tempo della chiesa e tempo dei mercanti che volevano dare un prezzo anche al trascorrere del tempo: cosa scandalosa per la chiesa, posto che se il tempo appartiene a Dio ovviamente non deve e non può avere un prezzo; ma hanno vinto i secondi.
Poi, da metà Settecento è iniziato appunto il tempo del capitalismo industriale e delle macchine, integratosi a quello dei mercati più che dei mercanti, ma ancora più potente, totalitario e pervasivo di quello dei mercanti. Un tempo industriale che tuttavia ha la propria ascendenza nel monachesimo cristiano, cui spetta l’onore di avere per primo organizzato rigidamente, suddividendola tra preghiera e lavoro, la giornata dei monaci, diventando poi il modello per il sistema industriale, che lo ha semmai esasperato.
E un grande sociologo come Lewis Mumford (1895-1990) aveva opportunamente scritto che “l’orologio, e non la macchina a vapore è lo strumento basilare della moderna era industriale”. Da allora il tempo è diventato sempre più industriale, sempre più artificiale (e contrario al tempo biologico dell’uomo), sempre più accelerato (e rimandiamo a Hartmut Rosa e al suo ottimo Accelerazione e alienazione – Einaudi) secondo l’accelerazione imposta dalla tecnica, quindi sempre più intensificato (massimizzare l’efficienza secondo una razionalità solo strumentale/calcolante), oggi con gli algoritmi che hanno preso il posto dei vecchi controllori dei tempi e dei metodi.
Bisognerebbe allora riprenderci il controllo del tempo, per cercare tempi di vita che non siano solo quelli funzionali al funzionamento della fabbrica e del capitalismo. La crisi climatica e ambientale sempre più drammatica – per non dimenticare quella sociale – è lì a dimostrarci che questa presunta razionalità positivista e industrialista è totalmente irrazionale, che quindi avremmo bisogno di resettare il nostro rapporto con il tempo – e con la vita, nostra e della biosfera.
Per farlo, è utilissima la lettura di un breve e godibilissimo libro di Gian Luigi Beccaria, linguista e critico letterario famoso, dal titolo accattivante di In Contrattempo; e con il sottotitolo di Elogio della lentezza, da poco uscito per Einaudi. E Beccaria – “non ho rimpianti per il ticchettio della macchina da scrivere, non sono nemico delle tecniche e delle scienze” – da linguista, ci porta a ragionare appunto sul nostro rapporto sempre più malato e paranoico con il tempo capitalistico e sul conflitto tra leggere e scrivere testi letterari – “attività che richiedono, più di altre, attenzione e indugio” mentre “la velocità è una macchina di dispersione dell’attenzione” – e vedere, perché la lettura e la scrittura esigono concentrazione, “diversamente dal vedere”.
E oggi andiamo sempre più in fretta perché il sistema e la tecnologia vogliono così, perché anche pensare, interpretare criticamente, concentrarsi, indugiare sono tutti tempi morti da ridurre possibilmente a zero. E le retoriche dominanti ci dicono e ci addestrano infatti a credere che veloce è moderno, è innovazione, è razionalità, è efficienza; lento sarebbe invece solo spreco, inutilità e inefficienza.
Ma la velocità tuttavia – ricorda Beccaria citando Milan Kundera – “è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo”; ma questa estasi (noi aggiungiamo futuristica), è un dono avvelenato, come la famosa mela. E le Università – è una critica che per noi vale per quasi-tutte le università, soprattutto quelle anglosassoni-utilitaristiche-capitalistiche e per quelle, quasi-tutte che ne imitano il modello) – sono dominate, come tutti i livelli scolastici, dall’imperativo della semplificazione e conseguentemente gli studenti “arrivano alla laurea sprovvisti di sintassi, sono incapaci di argomentare, fanno fatica ad articolare (ma anche a leggere) un testo con un po’ di subordinate; domina l’incapacità di organizzare e gerarchizzare e illustrare le idee, sono saltati i nessi logici, i legami tra il prima e il poi, tra causa ed effetto”.
E ancora: “si va estinguendo il senso della storicità, sostituito dalla simultaneità”. Di più: le materie umanistiche vengono sempre più sostituite da insegnamenti scientifici basati sul calcolo (ma il calcolo, lo ricordiamo, non è pensiero: è solo presunta esattezza che però non può mai essere pensiero critico, per la contraddizione che non lo consente). Ma le materie scientifiche e tecniche sono utili al mercato e quindi la conoscenza (che vive di riflessione, indugio, approfondimento e critica) deve essere sostituita dal saper fare, per una pedagogia-non-pedagogia (aggiungiamo) basata solo sullo Stimolo/Risposta.
E così “non ci si ferma a pensare [ma forse, aggiungiamo, lo si fa invece deliberatamente] sul fatto che programmare una scuola tutta in funzione degli sbocchi lavorativi non significa in sostanza” – scrive Beccaria – “che adeguarsi alle esigenze dei gruppi economici, che richiedono dalla scuola soltanto prestatori d’opera, pronti a rispondere alle esigenze produttive. Ed è ovvio che per i poteri economici così debba essere, essi decidono per noi; ma per noi umanisti sembra agghiacciante [Beccaria cita Giulio Ferroni] che il senso del destino umano, il futuro delle giovani generazioni, sia così strettamente collegato alle istanze dello sviluppo capitalistico e che tutto questo venga dato semplicemente per scontato e ineluttabile”.
Purtroppo, commenta Beccaria, “si tratta di un pensiero unico, condiviso dalla quasi totalità della classe politica”. Ormai in tutto il mondo. Dove la scuola è diventata – come scriveva il sociologo statunitense Neil Postman, richiamato da Beccaria – “una specie di colossale corso di inserimento aziendale. Una precocissima e spietata selezione del personale”.
Ma chiudiamo, doverosamente ancora con Beccaria: “Ai frenetici, ai veloci certo dobbiamo moltissimo… ma dobbiamo prenderli a modello? Spesso non sono che dei nevrotici”. Leggere il libro di Beccaria ci aiuta a non esserlo anche noi.
Nell’immagine: Özgür Kar, “At the End of the Day” (installazione, 2019)
“Do you remember Lehman Brothers?” Dal crollo della Silicon Valley Bank al crac di Credit Suisse, si conferma che il rischio contagio in Europa è reale e grave, mosso da una serie...
La neutralità deve essere ancorata nella Costituzione? Dopo gli sconvolgimenti geopolitici dell’ultimo anno, il tema è attuale. Il vero dilemma è se si vuole una neutralità armata...