Un punto di svolta che diventa fermo
A vent’anni dalla scomparsa di Giorgio Gaber - "Quando è moda è moda", di Fabrizio Quadranti
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A vent’anni dalla scomparsa di Giorgio Gaber - "Quando è moda è moda", di Fabrizio Quadranti
Il «mio Gaber in una canzone, una sola». Pochi dubbi: «Quando è moda è moda», del 1978, brano conclusivo dello spettacolo «Polli d’allevamento» (un titolo che già dice tanto…). Voglio però anteporre una premessa di riferimento contestuale: per me Giorgio Gaber è uno dei pochi maestri della canzone d’autore italiana, al suo pari solo Fabrizio De André e Franco Battiato (e … sopra tutti l’inarrivabile Paolo Conte). Per maestro intendo uno capace di smuovermi anche in lunghe trasferte pur di assistere ad una sua esibizione. Ho visto tutti i suoi spettacoli, qualcuno anche due volte, a partire da «Il signor G», del 1970: il Teatro di Giorgio Gaber è stato per me un appuntamento fisso e irrinunciabile.
Ma torniamo a «Quando è moda è moda». Alla sua uscita mi sorprende e meraviglia. Così diverso, così punto di svolta. A partire dalla melodia, stiamo parlando di canzoni, guai dimenticare l’aspetto musicale. Un violino … più violini, con un ritmo che parte piano eppoi incalza: «ma cosa succede?» ti chiedi. «Vediamo» e sei incuriosito e affascinato. Le prime parole «Mi ricordo … » ecco la voce, la sua voce: ed è subito shock. Per la prima volta il cantautore e cantattore milanese non sottintende un «Noi». Abituato alla sua presenza coinvolgente («la libertà non è star sopra un albero») sia che racconti la società con la metafora della «Nave» o che confessi un piccolissima intermittenza del cuore consigliando uno «Shampoo», magari chiedendo … «scusa se parla di Maria» lui c’è sempre stato.
Era, è il fratello maggiore che ti appassiona facendoti arrabbiare, soffrire, ridere, pensare. Qui no, con «Quando è moda è moda» ecco il brusco cambiamento, l’improvvisa curva a U. Una linea di separazione chiara, netta e dichiarata: lui si presenta «diverso e certamente solo» e le parole usate fino a poco prima gli sono diventate «disgustose». Per gli spettatori un trauma. Le «facce giuste che si univano in un’ondata che rifiuta e che resiste» sono ora «da rotocalchi, o da ente del turismo», l’ «allegria e forse l’entusiasmo» trasformate in «mancanza». E via in un crescendo di rabbia irrefrenabile, fino al conato liberatorio: «non voglio più avervi come amici, come interlocutori».
Il «Noi» non c’è più, io sono io e voi siete voi. Se prima la libertà veniva declamata come «partecipazione» adesso Gaber «non ha nessun rispetto per la democrazia». Perché «quando è merda è merda». Ed il pubblico viene chiaramente apostrofato: «studenti, barbieri, santoni, artisti, operai, gramsciani, cattolici, nani, datori di luce, baristi, troie, ruffiani, paracadutisti, ufologi… ». Il tutto ovviamente anticipato da un perentorio «non sono più compagno né femministaiolo militante». Un pugno in pancia di quelli in grado di ammazzare. Lui, Gaber, è tornato sull’albero. E la musica che avvolge nel respingimento: si scoprirà poi che gli arrangiamenti sono stati per la prima volta commissionati ad esterni, e che esterni … la firma è di Giusto Pio e Franco Battiato.
«Quando è moda è moda», una canzone dalla quale è impossibile tornare indietro. Un brano che in pratica fa arrabbiare tutta la critica, militante o meno. Persino Michele Serra si incazza parecchio. E quando un altro maestro si mette in contrapposizione … sono guai. Una canzone che per un anno abbondante scava nel cervellino incredulo di chi scrive e in quello di molti altri, lasciando solo incertezza mista a inquietudine. Perché non si tratta solo di spietata denuncia, fors’anche necessaria, contro l’evidente e invadente conformismo dilagante, i «Polli d’allevamento» del titolo dello spettacolo. C’è molto di più. La fine di un mondo, un nervo scoperto che lo spettatore fatica a precisare.
Poi, superato il brusco impatto iniziale, un qualche significato comincia ad emergere. Magari accompagnato da altre immagini dominanti a quel momento: il colonnello Kurtz (Marlon Brando) del contemporaneo «Apocalypse now», con l’ indimenticabile «The end» per la voce di Jim Morrison. «Quando è moda è moda» non è solo una canzone ma … la preparazione, dunque una fase propedeutica, per la denuncia massima ipotizzabile, l’indicibile nel 1979. Arriva «Se fossi Dio», l’eruzione delle eruzioni. Gli sconti negati a tutti si trasformano in un «J’accuse» che molti nemmeno osano ipotizzare a livello mentale. Il cantautore qui se la prende con tutti, come non citare Aldo Moro e le Brigate rosse ?, ma è un’altra storia e meriterebbe un altro capitolo. Lo si scrive solo per il suo legame con «Quando è moda è moda».
Passano gli anni e molto si chiarisce. Che Gaber abbia avuto la vista lunga ? Oppure ha cannato alla grande ? Il valore di un cantautore non si giudica dalle sue capacità «divinatorie», o sì ? La cronaca, vista con gli occhi del dopo, ci dirà che la mira era giusta. A quei tempi Matteo Salvini era al Leoncavallo, Paolo Liguori a «Lotta continua»… per dire (e potremmo anche aggiungere un qualche ticinese, ma Gaber si riferiva a quella realtà). Un bersaglio colpito, lo ammetterà lo stesso Gaber con «La mia generazione ha perso» e con la sconfitta delle ideologie: ha vinto il narcisismo, non importa da quale direzione arrivi. L’apparenza ha soppiantato l’essenza. E ti viene addosso una nuova rabbia, anche per non aver capito subito.
«Quando è moda è moda» è una canzone potente, che trafigge barriere e confini. Una canzone che ogni tanto è bene riascoltare e risentire. Peccato che non vi sia una sua registrazione «visiva». Ma anche questo ci dice un po’ di cose.
Per uscirne vivi serve solidarietà, convinzione e... un piccolo, rudimentale periscopio
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