Quell’illogica allegria che mi porto dentro
A vent’anni dalla scomparsa di Giorgio Gaber - "L’illogica allegria", di Massimiliano Herber
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A vent’anni dalla scomparsa di Giorgio Gaber - "L’illogica allegria", di Massimiliano Herber
Giorgio Gaber è mia mamma che canticchia che per fortuna c’è il Riccardo, Gaber è il mio amico Fedy che afferra la chitarra per intonare lo Shampoo per la millesima volta, è la mia famiglia che canta a squarciagola in macchina la ballata del Cerutti Gino (“ma lo chiamavan Drago”). Gaber sono io che venti, trent’anni dopo continuo a ridere quando sento che “il cesso è sempre in fondo a destra” e che “il Papa ultimamente [N.B.: nel 1994!] è un po’ a sinistra”, per poi invece commuovermi come un vitello a ogni ascolto di Quando sarò capace di amare.
Ma Giorgio Gaber non è stato solo la colonna sonora di diverse stagioni della mia vita, il cantastorie di una Milano e di un’Italia d’altri tempi, tratteggiate con poesia e nostalgia e poi graffiate e messe a nudo nelle loro contraddizioni. È stato un artista che, dribblando come Gianni Rivera le etichette e ogni partito preso, mi ha sempre sfidato a render conto del mondo, della vita, rubandomi tic e cliché, dubbi e certezze trasfigurandoli in musica.
Teenager all’epoca del riflusso, guardavo con curiosa circospezione alle battaglie della generazione dei miei genitori; alla tivù da Renzo Arbore mi ricordavano che stavo vivendo gli Anni Ottanta “edonistici e reaganiani” e le canzoni del signor G – come lo aveva ribattezzato il sodale Sandro Luporini riduttivamente ricordato come il paroliere di Gaber – quelle ballate strimpellate dal mio amico Federico (v. sopra) mi stupivano non tanto per l’umorismo o il disincanto – che a torto chiamavano pessimismo – bensì per essere così reali e concrete, leali e consistenti, tanto che a un certo punto si erano prese pure i teatri. Parole come mattoni, per raccontare la realtà, che non scivolavano via come le hit dell’estate ma che rimanevano lì a due passi dal cuore, a interrogarti, a provocarti, a sorprenderti all’ennesimo ascolto.
Perché dopo aver brindato a barbera – “Rivera, Mao e giù champagne” – a un certo punto il Signor G ha chiesto scusa parlando di Maria, – “La libertà, Maria, la rivoluzione” –, ha osato cantare qualcosa di più personale e profondo, una voglia di cambiamento e un non so. Con libertà e spietatezza ha osato chiedere chi fossi e dove stessi andando – “incosciente come un uomo / compiaciuto della propria libertà” – senza ammettere scuse retoriche, anzi, spesso inchiodandoti, tu disarmato e imbarazzato, con un suo sorriso, anzi un ghigno sghembo, una smorfia, una contorsione, un virtuosismo mimico.
Ma in Gaber non c’è moralismo, semmai un’umiltà piena di ironia ma profondissima, capace addirittura di cogliere nelle pieghe della quotidianità, tra le contraddizioni e gli inciampi del proprio vivere, “un piccolo bagliore, un’aria già vissuta… o che ne so” per sorprendere un’“illogica allegria”. Quella sua posizione umana, quel suo sguardo da allora mi ha sempre catturato e ancor oggi nel mio lavoro lo inseguo, come una farfalla o una nostalgia, lo desidero e quando osservo persone ed eventi “lascio il mio cuore incollato al finestrino”.
Ora ogni tanto “c’à un’aria che manca l’aria”. Qui non ascolto quasi mai il Signor G. Il mio amico Fedy non lo vedo da quasi vent’anni. Non so se la mia generazione abbia perso, temo che per quelli arrivati al giro di boa e che fanno finta di essere sani sia una tentazione chiederselo. Ogni tanto mi mancano quelle cantate in compagnia, quel modo di guardarsi scavarsi scoprirsi, citarsi confidarsi suonare … ma come per Maria “Non è facile parlare di Gaber / Ci son troppe cose che sembrano più importanti”.
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